martedì 4 aprile 2023

La corsa (racconto)

Scartabellando alcune vecchie mail ho trovato dei vecchi racconti che ancora non avevo pubblicato: ecco il primo di essi, chiaramente ispirato da "La lunga marcia" di Stephen King sotto lo pseudonimo Richard Bachman.
Spero possa piacervi.



Salvatore continuava a correre anche se ora il suo passo era incerto e caracollante; ormai la meta era vicina e soltanto grazie all’istinto di sopravvivenza era riuscito a proseguire, dopo che i suoi compagni erano tutti caduti, uno dopo l’altro, durante il massacrante percorso. Erano partiti circa tre settimane prima da Sitka, in Alaska e dopo un percorso di quasi 5600 km, in cui avevano attraversato pressoché un quarto degli interi Stati Uniti, ora stava per giungere, da solo, a Key West, nell’assolata Florida.
La micidiale corsa era stata organizzata dal direttore di un grande penitenziario, con il benestare del governo e del Presidente, a causa dell’enorme sovraffollamento della prigione. Al momento della gara si contavano quasi cinquantamila detenuti, contro i trentamila che la struttura poteva normalmente contenere. Le insurrezioni erano ormai all’ordine del giorno ed era sempre più difficile tenerle sotto controllo, motivo per cui il direttore aveva pensato ad un sistema per liberarsi della maggior parte dei prigionieri, in maniera “più o meno” legale. Aveva dunque organizzato questa folle corsa, assicurando immediata libertà a chiunque fosse riuscito ad arrivare sano e salvo al traguardo, ma naturalmente si era anche preoccupato che a fine gara, arrivasse meno gente possibile. I detenuti che avessero deciso di partecipare dovevano seguire un percorso obbligato, controllati costantemente da militari armati; ogni tentativo di fuga sarebbe stato punito con la fucilazione immediata. In ogni caso, a tutti i carcerati venne installato un microchip, così se anche qualcuno fosse riuscito a eludere la sorveglianza, sarebbe stato immediatamente rintracciato e giustiziato. Inoltre, come rifornimento, erano elargiti solamente mezzo litro d’acqua e una tavoletta di cioccolato al giorno; ma la cosa più devastante era che veniva concesso solamente un’ora di riposo, ogni ventiquattro di corsa. Non ci si poteva fermare, non ci si poteva ritirare, non era permesso ostacolare gli altri concorrenti, ogni trasgressione alle regole veniva punita con una tempestiva esecuzione; la sola cosa che si potesse fare era correre e resistere, fino alla fine.
Sui cinquantamila detenuti, ben quarantamila avevano deciso di partecipare alla massacrante corsa; dopo tutto la maggior parte di loro avrebbe dovuto farsi almeno trent’anni di galera, e la prospettiva di ottenere la grazia era più allettante rispetto alla consapevolezza dell’enorme fatica che li aspettava per ottenerla. Dopo il primo giorno, le guardie di scorta fucilarono circa duemila carcerati, la maggior parte dei quali perché aveva tentato di fuggire, altri perché erano crollati o si erano arresi. Il giorno seguente, a venire uccisi furono altri cinquemila detenuti e altri settemila il terzo giorno. Poi, anche a causa delle morti dovute alla fatica e alle imprudenze, i corridori cominciarono a capire che ci voleva una strategia, non era sufficiente correre e basta e per quanto possibile, dovevano spalleggiarsi e aiutarsi a vicenda. Dopo queste riflessioni, per diversi giorni, il numerò di decessi calò vertiginosamente: appena un migliaio in quattro giorni. Tuttavia questa situazione non durò molto, le rivalità e le tensioni all’interno del gruppo erano troppo forti; ognuno voleva prevalere sull’altro, così dopo due settimane dall’inizio della mega maratona (così era stata soprannominata dai media che seguivano la vicenda con macabro voyerismo), si contavano quasi trentamila morti e all’ultimo giorno di gara i sopravvissuti erano non più di cinquecento.
Salvatore stava scontando una pena di vent’anni per aver ucciso un tizio in una lite nel parcheggio di una discoteca. Lui non era tipo da invischiarsi in quel tipo di cose, ma odiava farsi mettere i piedi in testa, e quando quel ragazzo, che avrà pesato più di un quintale, aveva cominciato a provocarlo in pista da ballo, non si era tirato indietro. Sapeva che molto probabilmente avrebbe avuto la peggio, ma a lui interessava dimostrare che nessuno poteva permettersi di prendersi gioco di lui, solo perché non era grande e grosso.
Poi però le cose erano andate diversamente da come se l’era immaginate ed era bastato un pugno alla gola per far si che il ragazzo morisse soffocato. Da quel giorno erano passati già cinque anni e durante tutto quel periodo, in carcere aveva subito ogni genere di abuso, fisico, sessuale e psicologico e quando aveva deciso di farla finita gli si era presentata l’occasione della corsa, così non se l’era fatta sfuggire. Ora, all’ultimo giorno di gara, era rimasto tra i pochi sopravvissuti, ma si sentiva sempre più esausto e temeva che sarebbe crollato proprio ora che stava per raggiungere il traguardo. Quell’estenuante prova lo aveva ridotto a essere l’ombra di se stesso, come se non fosse stato già abbastanza magro; le gambe, che ormai si muovevano da sole, lo reggevano per miracolo, ed era consapevole che se si fosse fermato a riposare un’altra volta, non sarebbe più riuscito a mettersi in piedi, per cui continuò ad arrancare faticosamente nonostante non dormisse ormai da più quasi tre giorni.
Davanti a lui, un giovane asiatico si bloccò improvvisamente in mezzo al percorso e si sedette a terra; non fece nemmeno in tempo a superarlo che una guardia lo raggiunse e gli sparò alla testa. Salvatore passò oltre indifferente; qualche giorno prima probabilmente si sarebbe perlomeno chiesto chi era quel ragazzo, se lo conosceva, se durante le detenzione aveva avuto modo di parlarci o di farci amicizia, ma in questo momento, nulla di tutto ciò aveva importanza, l’unica cosa che contava era arrivare alla fine. Improvvisamente, il suo sguardo perso si fece lucido, c’era qualcosa di diverso in fondo alla strada; la gente che fino a quel punto aveva seguito la maratona, era sempre rimasta diligentemente a bordo strada, controllata dalla polizia in modo che non interferisse con la gara, ma ora sembrava che fossero tutti ammassati, lasciando solo uno stretto corridoio, attraverso il quale sarebbe dovuto passare.
Il traguardo era vicino.
Entrò in città accolto da una folla festante che lo incitava e incoraggiava, anche se lui non era del tutto consapevole. Solo quando, oltre la piazza principale vide la linea del traguardo, come mosso da un improvvisa forza misteriosa, accelerò il passo, senza però tener conto delle sue gambe esauste.
Un crampo al polpaccio destro gli fece perdere l’equilibrio, facendolo finire a terra; ma Salvatore di tutto ciò non si rese conto, non si rese conto del suo volto che picchiava contro il pavimento in porfido, non si rese conto dell’arrivo delle guardie e non si rese conto di quell’ultimo colpo di fucile. La sola cosa che Salvatore sapeva, era che ce l’aveva fatta, aveva passato il traguardo, aveva vinto e ora era finalmente libero.

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