mercoledì 9 marzo 2016

Infanzia Clandestina (2011)



Juan ha dodici anni, e ha vissuto gran parte della sua infanzia in esilio. Sul finire degli anni settanta, i genitori del ragazzino, militanti armati dell’organizzazione che si oppone alla dittatura militare al potere, e convinti peronisti, decidono di tornare in Argentina da clandestini, per continuare la lotta al potere. Così per i compagni di scuola, gli insegnanti e chiunque incontri fuori di casa, Juan diventa Ernesto, come il “Che”, l’eroe di cui i suoi genitori gli hanno raccontato le eroiche imprese. Ma mentre i suoi genitori continuano a combattere l’oppressione, Juan si innamora di Maria, la sorella di un suo compagno di scuola, e sogna una vita normale. 



La vicenda narrata da Avila, si basa in parte su fatti autobiografici, la madre è infatti uno dei molti desaparecidos, ma il regista, anziché sbatterci in faccia gli orrori causati dal regime Videla, ci mostra la difficile quotidianità, vista dagli occhi di un bambino, che sta per diventare uomo. Così, grazie allo sguardo di Juan/Ernesto, noi vediamo dall’interno il mondo ristretto dei ribelli, ma messo a nudo dall’ingenuità del ragazzino, così da svelarne le contraddizioni e l’irrazionalità. Juan ha imparato i principi e i valori che i genitori gli hanno insegnato, e non ha mai pensato di metterli in discussione, anzi nel tentativo di tenerli alti, in una significativa sequenza il bambino rifiuta di issare la nuova bandiera argentina, simbolo della dittatura militare, rischiando di far scoprire la sua vera identità. 



Tuttavia un mondo fatto di segreti continui, di riunioni clandestine, di armi e di nascondigli non è un mondo adatto ad un ragazzino e Juan ne prende coscienza quando si innamora di Maria, in quel momento, gli ideali dei genitori non sembrano più così assoluti e importanti, perché entrano in gioco gli affetti, e non gli sta più bene di essere obbligato ad uno stile di vita che gli nega la libertà di giocare con gli amici, o di amare qualcuno.  In questo modo il regista ci pone di fronte a molti dubbi, e a molte domande, lasciando a noi il compito di trovare le risposte, perché lui, come Juan, non giudica ma ci mostra in maniera analitica, come molti argentini vivevano in quel difficile periodo, chi per scelta e chi per obbligo. A rendere più lieve quell’assurda esistenza, è la figura di zio Beto, che cerca di donare un po’ di normalità all’infanzia di Juan,  riuscendo anche a organizzargli una festa per il suo finto compleanno. Avila è bravo nel non cadere nella trappola del sentimentalismo o del facile ricatto del voyerismo, e anziché mostrarci la violenza che la dittatura usa nei confronti degli oppositori, la tiene per lo più fuori dall’obiettivo e quel poco che viene mostrato, viene fatto attraverso scene animate (non so quanto sia volontario il rimando a Kill Bill vol.1), come le potrebbe vedere, o immaginare, un bambino spaventato, costretto suo malgrado ad assistere ad avvenimenti più grandi di lui.

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