Dopo una lunga pausa torno con un mio vecchio racconto...spero vi terrorizzi :)
Questa vicenda è accaduta molti anni
fa; anche se sarebbe più corretto dire che ebbe inizio molti anni fa.
All'epoca avevo circa venticinque anni
e da allora non ne ho mai scritto, ne parlato con qualcuno. Non so perché,
forse per una sorta di pudore, o perché sapevo che nessuno mi avrebbe creduto,
o forse perché non ci volevo credere io stesso.
Poi l’altra settimana ho letto
quell'articolo sul giornale e ho capito che non erano state solo coincidenze,
come mi ero voluto illudere fino a quel momento; era tutto vero e lo era sempre
stato.
Ora, ho deciso di scrivere tutta la
storia per lasciare una testimonianza di quanto accadde quella notte e sulle
conseguenze che ebbe per tutti noi, ma soprattutto con la speranza che portandola
alla luce, essa rimanga imprigionata in queste pagine, liberandomi da quel
senso di colpa che grava su di me come un grosso macigno, da oltre
cinquantanni.
Quell'estate avevamo deciso che
avremmo passato le vacanze girando l’Italia in moto, senza tappe precise, ma
fermandoci di volta in volta dove il destino ci avrebbe condotto.
Simone, Alessandro, Jonathan con la
sua eterna fidanzata Martina, ed io, eravamo in viaggio già da una settima e
stavamo per lasciare la Toscana, per addentrarci nella verde Umbria. Avevamo
trascorso il pomeriggio in un piccolo paese medioevale passeggiando tra le mura
del piccolo borgo e visitando alcuni tipici edifici; dopo aver preso un
aperitivo partimmo alla ricerca di un posto dove passare la notte.
Eravamo per strada ormai da due ore, e
da più di una non incrociavamo anima viva. Improvvisamente ci trovammo avvolti
da un'insolita nebbia estiva, talmente fitta che non riuscivo più a distinguere
i miei compagni di viaggio, nonostante mi precedessero solo di qualche metro.
Allo stesso tempo i rumori dell’ambiente circostante svanirono rapidamente;
niente più cinguettio degli uccelli, ne fruscio del vento tra le fronde degli
alberi. L’unico rumore che percepivo era quello dei potenti motori delle nostre
moto, ma anche questo mi giungeva molto ovattato, come se la densità della
nebbia ne assorbisse una parte. Ricordo che perso in quella coltre bianca,
provai una strana sensazione, come se fossi prigioniero di una stanza senza pareti.
Poi,
così com'era comparsa, la nebbia svanì, non diradandosi lentamente, ma tutta
assieme all'improvviso; tant'è che rischiai di andarmi a schiantare contro la
Harley di Alessandro.
I miei
amici erano tutti fermi sotto ad un grande cartello stradale e stavano
osservando la cittadina che si apriva al di la di esso.
Alzai
lo sguardo e lessi sul cartello il nome di quel misterioso paese: ARGO.
Erano
appena le otto di sera, eppure solo poche case avevano le luci ancora accese.
Pensai che, essendo quello un piccolo borgo isolato, probabilmente la gente
andava a letto molto presto.
Nella
piazza principale, dominata dalla torre del campanile, un unico locale era
ancora aperto. Sulla massiccia porta di legno l’insegna recita così: LA FORCA:
ALBERGO-BAR-RISTORANTE.
Entrando
mi ritrovai in un ambiente spazioso, ma non molto ampio, alcuni tavoli erano
stati disposti nella piccola sala e lungo la parete opposta a quella d’entrata
c’era il grande bancone da barista.
Quando
la porta si chiuse alle mie spalle, gli unici quattro clienti si voltarono ad
osservarmi, distogliendo per un attimo l’attenzione dalla partita a carte nella
quale erano impegnati.
“Buonasera!” esordii
“Buonasera” mi rispose l’uomo che
stava dietro al bancone “posso esserle utile?”
Spiegai che ero appena arrivato in
paese con quattro amici, e che cercavamo dove passare la notte.
Per qualche istante l’uomo non disse
nulla limitandosi a fissarmi, come se stesse cercando di studiarmi, poi mi
sorrise attraverso la folta barba che gli incorniciava il volto.
“Ma certo” disse “potete scegliere la
camera che volete, sono tutte libere, purtroppo non abbiamo molti visitatori.”
Chiamai gli altri e dopo averci
registrati, l’uomo ci consegnò le chiavi delle due stanze, una tripla per
Simone, Alessandro e me, e una matrimoniale per Jonathan e Martina.
“Sarebbe possibile avere qualcosa da
mangiare?” chiesi
“Mi spiace” rispose “purtroppo la
cucina è chiusa e la dispensa è vuota, ma se volete poco più a valle c’è un pub
aperto fino a tardi.”
“Ah, bene!” lo ringraziai e salii in
camera per darmi una rinfrescata.
Ci ritrovammo tutti nel salone
mezzora dopo e notai divertito che i quattro clienti che avevo visto entrando,
erano ancora seduti allo stesso tavolo a giocare a carte.
Chiesi indicazioni al simpatico
proprietario su come raggiungere il pub che ci aveva indicato.
“La strada più semplice è quella che
passa attraverso i campi qui dietro, non è molto illuminata, ma arriverete
dritti a destinazione.”
Un attimo prima di uscire dal locale
sentimmo una voce che diceva:
“Attenti all'albero degli impiccati…”
A parlare era stato uno dei quattro
giocatori di carte.
“Cosa?” chiese Jonathan
“Tenetevi alla larga dall'albero degli
impiccati” ribadì l’uomo.
“Di cosa sta parlando?” insistette
Jonathan “Cos'è questa storia?”
Il proprietario dell’albergo trasse un
profondo respiro e poi cominciò a raccontare.
“A metà strada tra qui e il pub c’è
una grossa quercia dove, nel medioevo, venivano impiccati i condannati a morte.
Per molti anni ladri, truffatori e assassini sono stati appesi per il collo
proprio su quell'albero. Poi un giorno, un contadino del paese fu accusato
ingiustamente di aver violentato e ucciso sette bambini. Nonostante lui
continuò a proclamarsi innocente fino alla fine, nessuno gli credette e così
anche lui venne impiccato laggiù, ma prima che il nodo scorsoio gli spezzasse
il collo, l’uomo lanciò un anatema, una specie di maledizione.
Pochi giorni dopo la sua morte, sette
ragazzini furono trovati impiccati alla stessa quercia. Il paese era in preda
al panico, e ricordando le ultime parole del contadino ucciso, fu chiamato un
prete esorcista per far benedire l’albero.
Da allora nessuno è stato più
impiccato, ne si sono ripetuti casi come quello dei sette bambini, ma chiunque
si è avvicinato troppo a quell'albero è stato vittima di strane e inquietanti
visioni e molta gente del paese è pronta a giurare di aver visto il fantasma
del povero contadino, penzolare dal grande albero che la osservava con gli
occhi fuori dalle orbite.”
“Accidenti” commentò Martina “proprio
una storia da racconto del terrore.”
“Ma è solo una storia” tentò di
tranquillizzarla l’albergatore “una leggenda che ormai si tramanda da
generazioni, per spaventare i nostri bambini o incauti visitatori come voi” e
poi scoppiò in una grossa risata.
“In ogni caso tenetevi lontano da
quella quercia” proseguì l’uomo al tavolo, che non aveva mai staccato gli occhi
dalle sue carte.
Nessuno di noi parlò durante il tragitto fino al
pub e quando fummo nei pressi dell’albero, tutti e cinque affrettammo il passo.
Tuttavia, una volta arrivati, e dopo aver bevuto un
paio di birre a testa, concludemmo che l’albergatore e i quattro clienti si
erano solo voluti divertire alle nostre spalle, spaventandoci un po’.
Passammo il resto della serata mangiando, bevendo e
scherzando, dimenticandoci presto del lugubre racconto.
Quando uscimmo dal locale eravamo tutti piuttosto
brilli, ma anche allegri e sereni, inconsapevoli di quanto stava per accadere.
Non so perché agii in quel modo, so solo che
ripensandoci ora la mi pare tutto ancora più assurdo perché non era una cosa da
me.
Avvisai i miei compagni che dovevo affrettarmi a
tornare in albergo, perché colpito da un inaspettato mal di stomaco, ma appena
li ebbi distanziati a sufficienza mi nascosi dietro ad un albero per poi
saltare fuori e spaventarli.
Mentre li aspettavo mi sedetti a terra, poggiando
la schiena contro il grosso tronco e solo allora mi accorsi che mi ero nascosto
proprio dietro all'albero degli impiccati.
Tentai di rialzarmi, ma non riuscii a muovere
neppure un muscolo, sentivo su di me una forza invisibile che mi teneva
ancorato ai piedi di quella quercia.
Fui sopraffatto dal panico, sentivo il cuore che mi
martellava impazzito nel petto e sembrava sul punto di uscirmi dalla gola.
Finalmente udii i miei amici avvicinarsi e cercai
di urlare per attirare la loro attenzione, ma non un fiato mi uscì dalla mia
bocca.
Vidi, poi, che tutti e quattro si voltarono verso
la mia direzione e nei loro occhi lessi terrore allo stato puro, Martina urlò
il mio nome indicando il punto in cui ero nascosto.
Alessandro e Simone si avvicinarono di qualche
passo alla vecchia quercia.
“Si è proprio lui…” bisbigliò Simone
“Oh mio Dio, allora la storia dell’albergatore è
vera…” disse Alessandro “qualcuno lo ha impiccato”
Provai in tutti i modi a liberarmi dalla mia
prigionia e di avvisare i miei amici che quello che vedevano penzolare dai rami
dell’albero non ero io, ma fu tutto inutile,
ogni mio tentativo di spezzare le invisibili catene
che mi tenevano bloccato, risultò vano.
Un’improvvisa luce abbagliante mi costrinse a
chiudere gli occhi e quando riuscì a riaprirli, quello che vidi rischiò di
farmi impazzire.
Tutto attorno a me era cambiato. Ora era giorno
fatto e non c’erano ne alberi, ne campi, mi trovavo nella piazza di una grossa
città. La via principale era molto affollata e le lunghe file di luci e
decorazioni mi fecero supporre che era periodo di Natale.
Dov'ero finito e soprattutto come ci ero arrivato?
Poi, in mezzo a tutta quella gente, riconobbi il
volto di Alessandro, anche se c’era qualcosa di diverso in lui, che al momento
non riuscii a decifrare.
Vidi che il mio amico teneva per mano un bambino di
circa sei anni e notai che questi gli assomigliava in maniera sorprendente. Mi
avvicinai ad Alessandro per salutarlo e per farmi spiegare cosa fosse successo,
ma nonostante arrivai sfiorargli il braccio lui sembrò non notarmi, nemmeno
dopo che lo chiamai per nome. Provai allora a rivolgermi a qualcun altro per
chiedere aiuto, ma anche per tutti gli altri ero soltanto un fantasma.
Stavo sognando, ero ancora seduto sotto alla grande
quercia, mi ero addormentato e stavo sognando.
Eppure io mi sentivo sveglio e quello non era uno dei soliti sogni che ognuno
fa ogni notte, c’era qualcosa di terribilmente reale.
Tornai a concentrarmi su ciò che stava accadendo
attorno a me quando sentii Alessandro urlare.
Il bambino che era con lui, si era lasciato
inavvertitamente sfuggire la palla che
aveva sotto braccio, e corse in mezzo alla strada per recuperarla.
Proprio in quell'istante un’auto che sbucò dall'incrocio, si stava dirigendo addosso
al bambino. Alessandro, con un rapido scatto, riuscì a spingerlo dall'altra
parte della strada, ma non poté evitare l’auto che lo travolse in pieno. Il
colpo lo fece volare per una decina di metri e poi sbatté la nuca contro lo
spigolo del marciapiedi. Non si rialzò più.
Il bambino si gettò sul corpo esanime dell’uomo.
“Papà …!” urlò con la voce rotta dal pianto.
Urlai anch'io, in preda alla disperazione, avevo
appena visto morire uno dei miei migliori amici e non avevo potuto far nulla
per evitarlo.
La testa cominciò a girarmi vorticosamente, non
riuscivo più a dare un senso alle cose che stavano accadendo.
Chiusi gli occhi, esausto, sperando che quando li
avessi aperti mi sarei ritrovato nel letto dell’albergo, scoprendo di aver
avuto soltanto un incubo intenso.
Invece, riaprendo gli occhi, lo scenario era
cambiato ancora. Mi trovavo ora nel salottino di una piccola, ma accogliente
casa; il caminetto era acceso e il riverbero delle fiamme allungava le ombre
degli oggetti, donando alla stanza un che di mefistofelico. Due figure scure,
giacevano addormentate sul divano, unite in un intimo abbraccio, mentre dallo
stereo i Cure cantavano il loro amore disperando, riempiendo l’aria di note
struggenti:
"Don't look don't look
the shadows breathe
Whispering me away from you
"Don't wake at night to watch her sleep…”
Erano
Jonathan e Martina, certo invecchiati, avranno avuto entrambi sui quarant’anni,
ma erano indubbiamente loro.
Un
piccolo scoppiettio attirò la mia attenzione e vidi un piccolo tizzone schizzare
sulla tenda vicina, che immediatamente prese fuoco. Tentai inutilmente di
svegliare i miei due amici, ma senza nessun risultato. Ancora una volta non
potevo essere ne visto, ne sentito.
“But every night I burn
But every night I call your name
Every night I burn
Every night I fall again…”
In
breve tempo l’intera stanza fu avvolta dalle fiamme, ma ne Jonathan ne Martina
se ne resero conto. Probabilmente morirono soffocati dal fumo, molto prima che
il fuoco raggiungesse il divano.
Io
continuavo a sentirmi impotente, un po’ come doveva essere capitato a Ebenezer
Scrooge, quando ricevette le visite degli spiriti del Natale passato, presente
e futuro.
La
visione di quell'orrore cominciò lentamente a svanire, intrecciandosi con una
nuova, mentre i Cure continuavano a cantare la loro storia
“Still every night I burn
Every night I scream your name
Every night I burn
Every night the dream's the same
Every night I burn
Waiting for my only friend
Every night I burn
Waiting for the world to end”
Ora
ero seduto al tavolo di una mensa, attorno a me c’era soltanto povera gente,
vestita di abiti lerci e puzzolenti, intenta a strafogarsi di cibo, che
probabilmente non vedevano da diversi giorni.
Un
pezzo di carne in più nel piatto di uno di loro, fu l’inizio della disputa tra
due clochard e uno di essi estrasse un coltello a serramanico con fare
minaccioso.
Un
vecchio si mise in mezzo per cercare di sedare la rissa, ma l’uomo che con il
coltello in mano non ci badò e affondò ugualmente l’arma, recidendo di netto la
carotide al pover’ uomo. Ci fu un fuggi fuggi generale, solo un paio di
inservienti della mensa riuscirono a bloccare il colpevole e a chiamare i
soccorsi, anche se probabilmente era troppo tardi.
Mi
avvicinai tremando all'uomo agonizzante, sapendo già cosa avrei visto.
A
terra, in un lago di sangue con il respiro sempre più corto c’era Simone.
Doveva avere almeno settantanni, lunghe rughe gli solcavano la fronte, la folta
barba era sporca del cibo che non aveva nemmeno finito di mangiare. Avevo fatto
fatica a riconoscerlo, tanto era cambiato, ma ora che stava morendo il suo viso
era tornato quello di quando eravamo ragazzi.
Cominciai
a piangere, piansi per Alessandro e suo figlio rimasto orfano; piansi per
Jonathan e Martina e piansi per Simone, morto solo e dimenticato da tutti.
Tutte
quelle visioni di morte, sulle quali non avevo potere mi sfinirono
definitivamente e questa volta caddi addormentato in un sonno senza sogni.
Quando
mi svegliai ero di nuovo sotto all'albero degli impiccati, ma dei miei amici
non c’era traccia.
Riuscì
a mettermi in piedi senza nessuna fatica e lentamente tornai all'albergo.
Quando
entrai i miei amici erano seduti ad uno dei tavolini, con la testa tra le mani,
immersi in un inquietante silenzio.
Il
primo ad accorgersi della mia presenza fu Alessandro, che si lasciò sfuggire un
urlo strozzato. Poi anche gli altri si voltarono verso di me e mi guardarono
tanto stupiti, quanto spaventati.
Alle
prime luci dell’alba eravamo ancora seduti a quel tavolino, diventato per noi,
ormai così noto. Per tutta la notte mi raccontarono di quello che era accaduto
da quando li avevo lasciati per fargli lo scherzo, di come avessero avuto una
strana sensazione passando accanto alla vecchia quercia e che erano sicurissimi
di avermi visto penzolare con una corda al collo. Mi dissero che erano tornati
subito all'albergo e che mentre il proprietario stava per chiamare i soccorsi,
io avevo fatto il mio ingresso, come se nulla fosse.
Io
invece non raccontai nulla della mia esperienza, non volevo turbarli più di
quanto non lo fossero già.
Inoltre
mi stavo convincendo che probabilmente mi ero addormentato qualche minuto e
avevo sognato tutto.
Il
giorno seguente partimmo e decidemmo di tornare subito a casa. Quella fu
l’ultima vacanza che facemmo tutti assieme, in breve tempo ognuno prese la sua
strada e ci perdemmo di vista.
Io
continuai a credere che tutto quello che era accaduto fosse stato solo un
brutto incubo, continuai a crederlo anche quando venni a sapere che Alessandro
era morto investito da un’auto per salvare il figlio. Volli illudermi anche
quando anche quando al telegiornale parlarono di un incendio in cui morì una
giovane coppia di sposi. Poi la settimana scorsa, leggendo il giornale, appresi
di un clochard accoltellato a morte in un ricovero per senza tetto, mentre
cercava di sedare una rissa.
Ora
non potevo più mentire a me stesso, per troppo tempo lo avevo fatto. I fatti di
quella notte erano stati reali, in qualche modo ero riuscito a vedere il futuro
e non potei fare a meno di sentirmi in colpa per aver taciuto.
Forse
se avessi raccontato tutto avrei potuto salvare i miei amici, o forse era
destino che morissero a quel modo e qualunque cosa avessi fatto non avrei
potuto cambiarlo.
Ora
sono qui, seduto a questa scrivania, che sto finendo di scrivere questa storia
e mi chiedo quale sia il destino mi aspetta. Ma la risposta la so già.
Il
mio destino è legato ad una corda ed ad un albero in uno sperduto paese del
centro Italia.