Questo è un altro racconto caduto nel dimenticatoio ripescato da una vecchia mail, è un lavoro diverso rispetto ai miei soliti racconti, non ricordo se fosse un esercizio di stile o qualcosa fatto per un concorso tematico, ma la cosa che più incredibile è che sembra descrivere abbastanza fedelmente mia moglie, ma è stato scritto almeno tre anni prima di conoscerla e cinque o sei, prima che iniziasse la nostra relazione.
Devo ammettere che al tempo e ciò si noterà nel racconto stesso, ero un po' prevenuto nei confronti delle persone con qualche chilo in più addosso, ma nel frattempo, non solo ho avuto modo di ricredermi, ma mi sono profondamente innamorato di una di loro.
Chiara si fermò davanti allo specchio nell’entrata di casa. Si sistemò i capelli biondi ricordando quando da ragazzina portava i capelli lunghi e che le piaceva attorcigliarci attorno un dito, vizio che le era rimasto anche ora che li aveva corti, perché non aveva più la pazienza di curarli con l’attenzione che richiedono le lunghe pettinature. Sul viso rotondo costellato da efelidi, dovute alla sua carnagione chiara, che al sole, anziché assumere un colore ambrato, arrossiva fino a darle l’aspetto di un grossa fragola, non c’era traccia di cosmetici. Non amava molto passare le ore tra rossetti, rimmel e phard, si truccava quel tanto che bastava per mascherare le fatiche di una lunga giornata.
In cucina, i suoi genitori e i suoi fratelli stavano cenando. Lei passò a salutarli senza dimenticarsi di Rudy, il suo amato bassotto, al quale ultimamente aveva dedicato più tempo che al suo ragazzo.
Dopo un’ultima occhiata allo specchio uscì rapidamente di casa. Come detto, Chiara, non era una ragazza vanitosa, del resto il suo fisico robusto non le permetteva di esserlo, ma come alla maggior parte delle donne, quando usciva di casa, piaceva essere in ordine. Una t-shirt scura e un paio di jeans erano l’ideale per una serata in compagnia dei suoi amici; semplicità e comodità, come piaceva a lei. Quella sera riuscì a convincere i suoi amici ad andare a mangiare al ristorante cinese, per il quale aveva una vera passione. Probabilmente questa predilezione era nata nell’adolescenza, quando credeva erroneamente, che la cucina cinese fosse tutta ipocalorica. Poi scoprì che c’erano anche diversi piatti fritti e moltissime salse che erano tutt’altro che dietetiche.
Arrivò all’appuntamento in orario, come da sua abitudine. Non era il tipo da arrivare addirittura in anticipo, ma odiava abbastanza i ritardi, per essere sempre puntuale.
Durante la cena chiacchierarono del più e del meno, senza scendere in discorsi particolarmente impegnativi. Chiara era così, simpatica, divertente e molto sensibile, ma non le piaceva parlare di se stessa e dei suoi problemi con persone con le quali aveva poca confidenza e, anche se quella sera era in compagnia dei suoi amici, non con tutti si sentiva libera di confidare le sue preoccupazioni. Se aveva bisogno di sfogarsi, di solito lo faceva con il suo ragazzo, ma anche lui non aveva accesso ai segreti più intimi che Chiara conservava gelosamente.
Gli amici però si fecero una grossa risata quando Chiara raccontò loro di un incubo che la tormentava da qualche tempo a quella parte, e cioè quello in cui veniva inseguita da una statua di Boccioni. Tale incubo derivava dall’inconsueta paura, che Chiara aveva, di rimanere rinchiusa all’interno di un museo senza la possibilità di uscire. Ancora di più la spaventavano i musei di arte moderna, con tutte quelle sculture e dipinti dalle forme astruse e minacciose.
Dopo cena, tutti assieme andarono al cinema. Questa non era una vera passione, ma a Chiara piaceva andare al cinema, in compagnia degli amici o del moroso e poi discutere del film appena visto. Videro un film romantico e Chiara si commosse, ricordando quel ragazzo che le aveva spezzato il cuore. Ma ora aveva una persona che la amava e lei era felice.
Più tardi, mentre si infilava a letto, nella sua camera, le cui pareti erano coperte dalle numerose cartoline che aveva raccolto in giro per il mondo, e sul cui pavimento risaltava anacronisticamente una cassetta di mele che aveva portato a casa dal Trentino soltanto qualche giorno prima, Chiara ripensò a tutto ciò e sorrise. Era circondata da persone che le volevano bene, aveva viaggiato molto e fatto esperienze che la maggior parte della gente che conosceva, mai avrebbe fatto. C’era solo una cosa che ogni tanto tornava a disturbarla, ed era il pensiero del suo fisico abbondante; ormai aveva imparato ad amare il suo corpo e quasi non faceva più caso agli sguardi e alle risate che qualche idiota ancora le rivolgeva, ma ogni tanto, come quando era bambina, sognava di essere una farfalla.
venerdì 14 aprile 2023
Chiara (racconto)
martedì 4 aprile 2023
La corsa (racconto)
Scartabellando alcune vecchie mail ho trovato dei vecchi racconti che ancora non avevo pubblicato: ecco il primo di essi, chiaramente ispirato da "La lunga marcia" di Stephen King sotto lo pseudonimo Richard Bachman.
Spero possa piacervi.
Salvatore continuava a correre anche se ora il suo passo era incerto e caracollante; ormai la meta era vicina e soltanto grazie all’istinto di sopravvivenza era riuscito a proseguire, dopo che i suoi compagni erano tutti caduti, uno dopo l’altro, durante il massacrante percorso. Erano partiti circa tre settimane prima da Sitka, in Alaska e dopo un percorso di quasi 5600 km, in cui avevano attraversato pressoché un quarto degli interi Stati Uniti, ora stava per giungere, da solo, a Key West, nell’assolata Florida.
La micidiale corsa era stata organizzata dal direttore di un grande penitenziario, con il benestare del governo e del Presidente, a causa dell’enorme sovraffollamento della prigione. Al momento della gara si contavano quasi cinquantamila detenuti, contro i trentamila che la struttura poteva normalmente contenere. Le insurrezioni erano ormai all’ordine del giorno ed era sempre più difficile tenerle sotto controllo, motivo per cui il direttore aveva pensato ad un sistema per liberarsi della maggior parte dei prigionieri, in maniera “più o meno” legale. Aveva dunque organizzato questa folle corsa, assicurando immediata libertà a chiunque fosse riuscito ad arrivare sano e salvo al traguardo, ma naturalmente si era anche preoccupato che a fine gara, arrivasse meno gente possibile. I detenuti che avessero deciso di partecipare dovevano seguire un percorso obbligato, controllati costantemente da militari armati; ogni tentativo di fuga sarebbe stato punito con la fucilazione immediata. In ogni caso, a tutti i carcerati venne installato un microchip, così se anche qualcuno fosse riuscito a eludere la sorveglianza, sarebbe stato immediatamente rintracciato e giustiziato. Inoltre, come rifornimento, erano elargiti solamente mezzo litro d’acqua e una tavoletta di cioccolato al giorno; ma la cosa più devastante era che veniva concesso solamente un’ora di riposo, ogni ventiquattro di corsa. Non ci si poteva fermare, non ci si poteva ritirare, non era permesso ostacolare gli altri concorrenti, ogni trasgressione alle regole veniva punita con una tempestiva esecuzione; la sola cosa che si potesse fare era correre e resistere, fino alla fine.
Sui cinquantamila detenuti, ben quarantamila avevano deciso di partecipare alla massacrante corsa; dopo tutto la maggior parte di loro avrebbe dovuto farsi almeno trent’anni di galera, e la prospettiva di ottenere la grazia era più allettante rispetto alla consapevolezza dell’enorme fatica che li aspettava per ottenerla. Dopo il primo giorno, le guardie di scorta fucilarono circa duemila carcerati, la maggior parte dei quali perché aveva tentato di fuggire, altri perché erano crollati o si erano arresi. Il giorno seguente, a venire uccisi furono altri cinquemila detenuti e altri settemila il terzo giorno. Poi, anche a causa delle morti dovute alla fatica e alle imprudenze, i corridori cominciarono a capire che ci voleva una strategia, non era sufficiente correre e basta e per quanto possibile, dovevano spalleggiarsi e aiutarsi a vicenda. Dopo queste riflessioni, per diversi giorni, il numerò di decessi calò vertiginosamente: appena un migliaio in quattro giorni. Tuttavia questa situazione non durò molto, le rivalità e le tensioni all’interno del gruppo erano troppo forti; ognuno voleva prevalere sull’altro, così dopo due settimane dall’inizio della mega maratona (così era stata soprannominata dai media che seguivano la vicenda con macabro voyerismo), si contavano quasi trentamila morti e all’ultimo giorno di gara i sopravvissuti erano non più di cinquecento.
Salvatore stava scontando una pena di vent’anni per aver ucciso un tizio in una lite nel parcheggio di una discoteca. Lui non era tipo da invischiarsi in quel tipo di cose, ma odiava farsi mettere i piedi in testa, e quando quel ragazzo, che avrà pesato più di un quintale, aveva cominciato a provocarlo in pista da ballo, non si era tirato indietro. Sapeva che molto probabilmente avrebbe avuto la peggio, ma a lui interessava dimostrare che nessuno poteva permettersi di prendersi gioco di lui, solo perché non era grande e grosso.
Poi però le cose erano andate diversamente da come se l’era immaginate ed era bastato un pugno alla gola per far si che il ragazzo morisse soffocato. Da quel giorno erano passati già cinque anni e durante tutto quel periodo, in carcere aveva subito ogni genere di abuso, fisico, sessuale e psicologico e quando aveva deciso di farla finita gli si era presentata l’occasione della corsa, così non se l’era fatta sfuggire. Ora, all’ultimo giorno di gara, era rimasto tra i pochi sopravvissuti, ma si sentiva sempre più esausto e temeva che sarebbe crollato proprio ora che stava per raggiungere il traguardo. Quell’estenuante prova lo aveva ridotto a essere l’ombra di se stesso, come se non fosse stato già abbastanza magro; le gambe, che ormai si muovevano da sole, lo reggevano per miracolo, ed era consapevole che se si fosse fermato a riposare un’altra volta, non sarebbe più riuscito a mettersi in piedi, per cui continuò ad arrancare faticosamente nonostante non dormisse ormai da più quasi tre giorni.
Davanti a lui, un giovane asiatico si bloccò improvvisamente in mezzo al percorso e si sedette a terra; non fece nemmeno in tempo a superarlo che una guardia lo raggiunse e gli sparò alla testa. Salvatore passò oltre indifferente; qualche giorno prima probabilmente si sarebbe perlomeno chiesto chi era quel ragazzo, se lo conosceva, se durante le detenzione aveva avuto modo di parlarci o di farci amicizia, ma in questo momento, nulla di tutto ciò aveva importanza, l’unica cosa che contava era arrivare alla fine. Improvvisamente, il suo sguardo perso si fece lucido, c’era qualcosa di diverso in fondo alla strada; la gente che fino a quel punto aveva seguito la maratona, era sempre rimasta diligentemente a bordo strada, controllata dalla polizia in modo che non interferisse con la gara, ma ora sembrava che fossero tutti ammassati, lasciando solo uno stretto corridoio, attraverso il quale sarebbe dovuto passare.
Il traguardo era vicino.
Entrò in città accolto da una folla festante che lo incitava e incoraggiava, anche se lui non era del tutto consapevole. Solo quando, oltre la piazza principale vide la linea del traguardo, come mosso da un improvvisa forza misteriosa, accelerò il passo, senza però tener conto delle sue gambe esauste.
Un crampo al polpaccio destro gli fece perdere l’equilibrio, facendolo finire a terra; ma Salvatore di tutto ciò non si rese conto, non si rese conto del suo volto che picchiava contro il pavimento in porfido, non si rese conto dell’arrivo delle guardie e non si rese conto di quell’ultimo colpo di fucile. La sola cosa che Salvatore sapeva, era che ce l’aveva fatta, aveva passato il traguardo, aveva vinto e ora era finalmente libero.