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lunedì 31 dicembre 2018

Anche libero va bene (2005)

Concludo l'anno con una vecchia recensione, questa volta leggermente corretta, sperando che con l'anno nuovo riuscirò a sfruttare meglio il tempo che mi sarà concesso, per postare cose nuove.
Nel frattempo auguro a tutti una buona fine...



Tommi (Alessandro Morace) ha undici anni e vive con la sorella Viola e il padre Renato (Kim Rossi Stuart)che cerca di crescere i figli alternando attimi di dolcezza a veri e propri scatti d'ira, rivolti soprattutto verso il piccolo Tommaso, per renderlo forte di fronte alle avversità della vita.
Tutto sommato questa particolare famiglia riesce a vivere mantenendo un seppur precario equilibrio. Equilibrio che viene spezzato dal ritorno della madre dei due bambini (Barbara Bobulova), fuggita più volte di casa per soddisfare i suoi desideri sessuali ed economici. 



Kim Rossi Stuart, alla sua opera prima, fa subito centro, con un film intenso e sincero. Per se stesso ha ritagliato il ruolo scomodo di Renato, padre orgoglioso e talvolta irascibile, che prende la vita e i rapporti con gli altri, come una gara da cui deve uscir vincitore e seppur capace di forti dimostrazioni d'affetto, fatica a capire il mondo di suo figlio Tommi che, a sua volta, ancora non riesce (o non può) capire le difficoltà e le problematiche della vita adulta.



Il bambino perciò si rifugia nella sua timidezza e seppur controvoglia, asseconda il padre che lo preferisce a nuotare in piscina piuttosto che a correre sul campo di calcio, come lui preferirebbe.
Il difficile rapporto con il genitore, i primi turbamenti amorosi, l'arrivo di un ragazzino introverso, l'amicizia con il nuovo vicino di casa, di famiglia benestante, sono il mondo in cui Tommaso impara a crescere. A volte scappa sul tetto di casa, camminando sul bordo del cornicione, come a dimostrare il proprio equilibrio e poi dall'alto osserva il mondo, nascosto alla vista degli altri e in questo modo protetto. 



Quando poi torna la madre Tommaso non sa come comportarsi, disilluso dal comportamento della donna, ma allo stesso tempo desideroso del suo affetto. Alla fine dopo l'ennesimo litigio col padre che lo ha cacciato di casa, sarà proprio Tommi a fare il primo passo per riavvicinarsi al genitore, dimostrandosi per una volta più adulto del padre che scoppierà in un pianto liberatorio. Pianto in cui si abbandonerà finalmente anche il bambino, dopo averlo trattenuto per tutto il film, nella sequenza finale sull'autobus, mentre legge la lettera che la madre gli ha lasciato, in una scrittura infantile e piena di errori, simbolo della sua immaturità. 



Tutti i protagonisti hanno dato grande prova d'attore, ma su tutti va sengalato il giovane Alessandro Morace i cui sguardi, le smorfie e la melanconia, arrivano dritte all'animo degli spettatori.

lunedì 26 novembre 2018

Germania anno zero (1948)

Ancora una volta, a causa di vari imprevisti, invece di pubblicare di qualcosa di totalmente inedito, di ripescare una vecchia recensione:

Nella Berlino del dopoguerra, città distrutta e in ginocchio, Edmund, un ragazzino tredicenne, deve provvedere al mantenimento della sua famiglia. Un padre invalido, un fratello disertore ricercato come ex nazista, e la sorella che si prostituisce ai soldati alleati. Giorno dopo giorno la vita è sempre più triste e difficile, finché Edmund incontra un suo ex maestro: un individuo ambiguo e cinico, al quale il ragazzino chiede aiuto. L'uomo "plagia" la mente del ragazzino con assurde teorie sui più deboli che devono soccombere per permettere la sopravvivenza dei più forti. Ispirato da tali discorsi, Edmund avvelena il padre. Preso dai rimorsi e dai sensi di colpa, il bambino torna dal maestro, che invece di confortarlo lo tratta da assassino. Edmund allora comincia a vagare tra le macerie di Berlino, entra in una chiesa, sale sul campanile dopo aver visto il carro funebre che porta via il corpo del padre morto, si lascia cadere nel vuoto.



Film con il quale conclude un ideale trilogia della guerra, dopo "Roma città aperta" e "Paisà", è per Rossellini un'opera di transizione tra il neorealismo e l'attenzione ai drammi esistenziali dell'uomo. Nel film si vede una Berlino segnata dalla guerra, ma non solo fisicamente, anche socialmente e psicologicamente. Città in cui regnano degrado, microcriminalità e forti contraddizioni e in cui il piccolo protagonista cerca di sopravvivere, schiacciato dalle molte responsabilità e da un infanzia perduta, tra lavori precari e le oscene proposte del vecchio maestro. 



Ed è proprio la figura dell'insegnante ad esprimere al meglio la crudeltà e la mostruosità del momento; quella che dovrebbe essere una figura di riferimento e di conforto, e che dovrebbe avere un ruolo pedagogico, si rivela invece essere un mostro pronto ad approfittare del momento di confusione per esprimere le sue tendenze pedofile e per esporre la sua ideologia nazista in particolare circa gli esseri inferiori che devono essere eliminati perché sono solo parassiti. Anche la famiglia però, che dovrebbe essere una sorta di cellula di protezione, si rivela invece essere inadeguata per la crescita del giovane Edmund, che non solo non è protetto dai suoi cari, ma vi deve pure provvedere. 



Uccidendo il padre, su suggerimento dell'ipocrita maestro, Edmund è realmente convinto di fare la cosa giusta, di fare del bene. Come De Sica, anche Rossellini, punta il dito contro gli adulti per la formazione delle nuove generazioni e in questo contesto il suicidio del ragazzino assume un ruolo di liberazione. Edmund è una vittima della guerra causata dalla follia degli adulti. L'anno zero del titolo è un anno che ancora deve venire, è quell'anno in cui si riuscirà a ricostruire un futuro per le nuove generazioni.

mercoledì 2 novembre 2016

L'estate di Kikujiro (1999)

Sono più di due mesi, che per un motivo o per un altro non ho più scritto qui sul blog, riprendo ora riportando una vecchia recensione su uno dei più bei film di Takeshi Kitano, sperando di ricominciare a scrivere con più assiduità, magari per raccontare di questo periodo che sta portando tante novità nella mia vita...



Masao ha nove anni e vive con la nonna.Il padre è sparito e la madre si è trasferita per lavoro in un'altra città. Finita la scuola, con gli amici che vanno in villeggiatura e con la nonna che deve lavorare tutto il giorno, per il bambino si prospetta un'estate in solitudine, ma dopo che ha trovato una foto della madre con il suo nuovo indirizzo, Masao decide di andarla a trovare. Ad accompagnarlo in questo viaggio è il marito di un'amica della nonna, un uomo rozzo, prepotente, scorbutico, ma che si rivelerà capace di autentici gesti d'affetto. Alla fine del viaggio entrambi saranno cambiati.Un po' "road-movie", un po' viaggio di formazione "L'estate di Kikujiro" è un film dolce e poetico, ma non melenso, in cui non si rinuncia a momenti di "bruttezza", anche se sempre "addolciti" da un'atmosfera di umorismo surreale.




I due protagonisti, all'apparenza completamente diversi, sono invece più simili di quanto non sembri e questo si nota soprattutto nell'ingenuità che caratterizza entrambi. Ingenuità propria dell'infanzia per quanto riguarda Masao, più spirituale quella del personaggio di Kitano, che con i suoi modi bruschi, rischia più volte di mettersi nei guai, ma che riesce anche a rendere il viaggio del bambino più spensierato e colorato, come una sorta di clown o di Charlot.Kitano non ci dice nulla di questo suo personaggio, ci da dei piccoli indizi per poter supporre qualcosa (il vizio del gioco, il carattere da bulletto, il tatuaggio da clan yakuza), ma in realtà di lui ignoriamo tutto. Fino alla fine, se non fosse per il titolo, non sapremmo nemmeno come si chiama; infatti Masao per tutto il viaggio si rivolgerà a lui chiamandolo "signore" e solo nell'ultima sequenza ne conoscerà il vero nome. Così come sono senza nome, anche gli altri personaggi che i due incontreranno durante il loro viaggio; il "poeta", "il ciccione" e "Il pelato", sono personaggi bizzarri, fuori dagli schemi e che aiuteranno Kikujiro, nel rendere migliore il cammino di Masao, mossi come le marionette del teatro Bunraku dallo stesso Kikujiro; tema del teatro (Kabuki in questo caso) che ritorna anche negli incubi del bambino.



Alla fine, quando tutti si devono lasciare, si avverte una sorta di malinconia, come quella che si prova alla fine dell'estate, ma ognuno avrà la consapevolezza di uscire arricchito da quell'esperienza. Sia Masao, che Kikujiro porteranno il ricordo di un estate indimenticabile e sapranno di essere un po' meno soli.

domenica 19 giugno 2016

Nessuno lo sa (2004)



Bellissimo film, che riesce a essere poetico e duro allo stesso tempo. Koreda ci racconta questa storia, basata su un fatto realmente accaduto, con un talio quasi documentaristico, come a dire "questo è quello che è successo, giudicate voi". All'inizio la madre viene mostrata affettuosa, che cerca di fare il possibile per mantenere i quattro figli e per loro è normale viaggiare nascosti all'interno di una valigia o rimanere sempre dentro all'appartamento senza la possibilità di uscire. Solo il più grande, che ha appena dodici anni,può muoversi tranquillamente ed è costretto a prendersi cura dei fratelli più piccoli. Anche quando la madre parte una prima volta (dice per lavoro, ma si capisce che la verità è un'altra), ci viene mostrato tutto come se fosse normale. I bambini più piccoli chiusi in casa giocano e ridono, si divertono in questa situazione assurda, mentre il più grande deve occuparsi di loro andando a fare la spesa e nelle faccende domestiche, ma in lui si vede tutto il disagio di un bambino costretto a fare cose più grandi di lui. Lui vorrebbe giocare con i suoi coetanei, li osserva li invidia, vorrebbe andare a scuola, così come la sorella di poco più giovane, ma la madre non li ha iscritti, anzi loro per la legge proprio non esistono, dunque è costretto a studiare a casa da solo (significativa la scena in cui non riesce a risolvere una semplice operazione da terza elementare).



 Nonostante tutto ciò, quando la madre parte un'altra volta per seguire una sua nuova fiamma (i bambini sono tutti figli di padri diversi), Akira, oltre a occuparsi come ha sempre fatto dei fratelli, lottando contro l'indifferenza dei vicini, e dei padri dei suoi fratelli, cercando di mantenere un regime di vita adeguato alla sua famiglia e non facendo mai mancare il sorriso e il buon umore, anche nei momenti più difficili. Il ragazzo riesce anche a fare amicizia, ma la situazione non dura molto. Dopo un po' il denaro che gli aveva lasciato la madre finisce, così i quattro bambini si devono arrangiare come possono, non tentano nemmeno più di nascondersi, mangiano avanzi, sono costretti a lavarsi alla fontana, perché la corrente e l'acqua in casa sono state bloccate. Ma mentre i più piccoli continuano a vivere tutto come un gioco, Akira, vive un forte disagio, non sa dove sbattere la testa, non può (non vuole) chiedere aiuto alla polizia perché altrimenti verrebbero tutti divisi, ma allo stesso tempo gli adulti a cui si rivolge si dimostrano indifferenti e sordi alla sua richiesta di aiuto. Molto belle le inquadrature dei particolari che usa il regista, come ad esempio le scarpe, troppo piccole per dei piedi che sono cresciuti, o lo smalto sulle unghie della sorella più grande, che un po alla volta si sta consumando, come la fiducia sul possibile ritorno della madre. O ancora la macchia, sempre dello smalto, sul pavimento, che ricorda l'egoismo della madre, che aveva rimproverato la figlia fin troppo aspramente. Solo alla fine, Akira, dopo un ultimo gesto da adulto, per tentare di mantenere unita la famiglia, riesce a essere quello che è; un ragazzino a cui è stato affidato fardello troppo pesante, e allora riesce a piangere. Un film da vedere e rivedere.