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mercoledì 13 marzo 2019

Ospiti pericolosi (1995)

Ripesco dalle vecchie recensioni, un altro film poco noto, ma che secondo me vale la pena recuperare:

Durante la seconda guerra mondiale, nella Francia occupata dai nazisti, una numerosa famiglia decide di ospitare, nascosti in cantina, una famiglia ebrea, nonostante il pericolo di venir scoperti. Tra François (Stanislas Crevillén) il figlio più piccolo dei padroni di casa, e Georgi, la bambina ebrea, nasce una bella amicizia. Le cose però si complicano quando, nella casa si installa un generale nazista.
 



Pierre Granier-Deferre, ci racconta la storia dei Dande, famiglia numerosa e benestante, emigrata nella campagna francese, per sfuggire all’occupazione nazista a Parigi. Lo sguardo è quello dell’ultimogenito, François, curioso e vivace come tutti i bambini della sua età. Per la maggior parte della pellicola, l’orrore dell’olocausto e la violenza della guerra rimango lontani, nascosti, se ne avverte qualche eco, si vedono notizie al cinegiornale, se ne parla, com’è giusto che sia, ma per François la vita è bella, fatta di studio e scampagnate in bicicletta, di ripetizioni di grammatica con l’avvenente signora Roussel, che turba i cuori di più di un componente della famiglia Dande, e pomeriggi a prendersi cura di un piccolo pino; insomma nel piccolo borgo la vita scorre pacifica, tant’è che lo stesso François avrà a dire: “non sembra che ci sia la guerra”



Però il bambino è sveglio e si accorge che un giorno in casa sta succedendo qualcosa di nuovo e suo padre si incontra più spesso con un misterioso personaggio che lui chiama “l’uomo scuro”; infatti qualche giorno dopo, François scopre che in cantina, viene nascosta una famiglia ebrea. Il rischio di venire scoperti è grosso, anche perché in paese sono arrivati i tedeschi, con i loro autoblindo e i loro cannoni, che tanto affascinano i bambini, corsi in fretta a vedere i nuovi arrivati. La guerra è ora qualcosa di reale, e allo scorrere della vita quotidiana, adesso si sovrappongono immagini di impiccagioni e gente che scompare nel nulla, come Germain, giardiniere dei Dande, un tempo letterato auto esiliatosi, per salvare la pelle.
Nel frattempo, il legame tra François e la piccola “ospite”, si fa sempre più forte, mettendo in pericolo la permanenza della famiglia fuggitiva, soprattutto quando un commando di nazisti decide di installarsi nell’abitazione dei Dande. I due bambini sono costretti a vedersi di sfuggita, per brevi momenti, per lo più attraverso la grata che dà in cantina, unico spiraglio sul mondo esterno, per la famiglia nascosta.



Quando il generale nazista, fa capire al capofamiglia, che ospitare certe persone potrebbe essere pericoloso, per i due amici è venuto il momento di separarsi. François accompagna con il padre, Georgi e i suoi genitori, verso il confine spagnolo, attraverso i monti. Lì i bambini giocano per un’ultima volta assieme, per poi salutarsi per sempre. Infine anche la famiglia Dande lascia il piccolo borgo per far ritorno a Parigi, lasciando però a François tanti ricordi, quelli più dolci, perché legati agli ultimi istanti dell’infanzia, in cui anche un periodo difficile, come quello della guerra, può essere visto con tenerezza e malinconia.



Pierre Granier-Deferre, mantiene per tutto il film toni leggeri, cosa che per qualcuno rappresenta un grosso difetto, accusando il film di frivolezza e retorica, ma a mio avviso, essendo la storia ambientata lontano dal fronte e soprattutto perché vista dagli occhi di un bambino, il regista ha fatto la scelta giusta, puntando invece sullo sguardo di François, che sia muove curioso tra i vari personaggi che incontra, e su un mondo per lui ancora così misterioso.




sabato 16 febbraio 2019

La guerra dei bottoni (1962)

Impegni personali e imprevisti vari mi hanno di nuovo tenuto lontano dai miei doveri di blogger per cui prima di lasciar passare ancora più tempo senza aggiornamenti, vado di nuovo a pescare tra le vecchie recensioni.




Tra i paesi di Veltrans e Longeverne, nella campagna francese, c’è stata a lungo una forte rivalità, ma se ora gli adulti hanno imparato ad andare d’accordo tra di loro, non è così per i ragazzini, che continuano a farsi la guerra, con spade di legno, sassi e botte da orbi. Quando una delle due bande riesce a fare un prigioniero, lo priva di bottoni, fibbie, cinture e lacci delle scarpe, costringendo il malcapitato a tornare a casa, reggendo i pantaloni con le mani e dunque a subire il rimprovero dei genitori oltre ad un’imbarazzante umiliazione.


Robert, il capo dei caimani , per evitare le punizioni paterne, che inoltre lo minaccia di mandarlo in collegio, si inventa di combattere nudi, ma con l’arrivo dei primi freddi questa tattica diventa improponibile. Il gruppo pensa così di comprare bottoni e cinghie, che assieme al bottino di guerra, verrà usato per ricucire i vestiti danneggiati. Un traditore però avverte Zazzera, capo dei falchi, su dove si nasconda il nascondiglio segreto, vanificando così il lavoro dei compagni. Il finale vede Robert arrivare al collegio, dove incontra Zazzera, anche lui spedito li dai genitori. I due ragazzi si scoprono così più simili di quanto avessero pensato e diventano subito amici.



Sulla falsa riga dei “I ragazzi della via Pal”, Yves Robert, mette in scena questa commedia vivace e spigliata, tratta dal romanzo omonimo di Louis Pergaud, più volte portato sul grande schermo, anche se questa rimane quella più conosciuta e riuscita. Seppur metafora del mondo degli adulti (e in particolare sulla guerra) e su come questo viene percepito dai più piccoli, la battaglia tra le due fazioni non ha nulla di veramente aggressivo, anche se combattuta con armi potenzialmente pericolose come spade di legno o sassi, ma ha più un valore ludico, un gioco ad imitare gli adulti che si fanno (realmente) la guerra.



Tuttavia in questo conflitto, i bambini si dimostrano, ancora una volta, più sensibili dei grandi, come nella scena in cui decidono una temporanea tregua per soccorrere assieme un coniglio ferito. La stessa sensibilità si nota nei discorsi che i ragazzini fanno nell’organizzarsi per lo scontro, che con serietà parlano di ricchezza e povertà, repubblica e monarchia,  uguaglianza e ingiustizia, argomenti difficili e delicati, ma che loro affrontano con ingenua autorevolezza.



Gli adulti, in questo film, sono personaggi di contorno, portatori unicamente di una morale punitiva, dimenticandosi probabilmente, di essere stati ragazzini a loro volta e soprattutto che la rivalità tra le due bande è dovuta a loro.
Yves Robert dirige un film dinamico e divertente, privo o quasi di tempi morti, che ancora oggi si fa vedere con piacere. Bravissimi i giovani protagonisti, simpatici e genuini nella loro naturalezza.

lunedì 26 novembre 2018

Germania anno zero (1948)

Ancora una volta, a causa di vari imprevisti, invece di pubblicare di qualcosa di totalmente inedito, di ripescare una vecchia recensione:

Nella Berlino del dopoguerra, città distrutta e in ginocchio, Edmund, un ragazzino tredicenne, deve provvedere al mantenimento della sua famiglia. Un padre invalido, un fratello disertore ricercato come ex nazista, e la sorella che si prostituisce ai soldati alleati. Giorno dopo giorno la vita è sempre più triste e difficile, finché Edmund incontra un suo ex maestro: un individuo ambiguo e cinico, al quale il ragazzino chiede aiuto. L'uomo "plagia" la mente del ragazzino con assurde teorie sui più deboli che devono soccombere per permettere la sopravvivenza dei più forti. Ispirato da tali discorsi, Edmund avvelena il padre. Preso dai rimorsi e dai sensi di colpa, il bambino torna dal maestro, che invece di confortarlo lo tratta da assassino. Edmund allora comincia a vagare tra le macerie di Berlino, entra in una chiesa, sale sul campanile dopo aver visto il carro funebre che porta via il corpo del padre morto, si lascia cadere nel vuoto.



Film con il quale conclude un ideale trilogia della guerra, dopo "Roma città aperta" e "Paisà", è per Rossellini un'opera di transizione tra il neorealismo e l'attenzione ai drammi esistenziali dell'uomo. Nel film si vede una Berlino segnata dalla guerra, ma non solo fisicamente, anche socialmente e psicologicamente. Città in cui regnano degrado, microcriminalità e forti contraddizioni e in cui il piccolo protagonista cerca di sopravvivere, schiacciato dalle molte responsabilità e da un infanzia perduta, tra lavori precari e le oscene proposte del vecchio maestro. 



Ed è proprio la figura dell'insegnante ad esprimere al meglio la crudeltà e la mostruosità del momento; quella che dovrebbe essere una figura di riferimento e di conforto, e che dovrebbe avere un ruolo pedagogico, si rivela invece essere un mostro pronto ad approfittare del momento di confusione per esprimere le sue tendenze pedofile e per esporre la sua ideologia nazista in particolare circa gli esseri inferiori che devono essere eliminati perché sono solo parassiti. Anche la famiglia però, che dovrebbe essere una sorta di cellula di protezione, si rivela invece essere inadeguata per la crescita del giovane Edmund, che non solo non è protetto dai suoi cari, ma vi deve pure provvedere. 



Uccidendo il padre, su suggerimento dell'ipocrita maestro, Edmund è realmente convinto di fare la cosa giusta, di fare del bene. Come De Sica, anche Rossellini, punta il dito contro gli adulti per la formazione delle nuove generazioni e in questo contesto il suicidio del ragazzino assume un ruolo di liberazione. Edmund è una vittima della guerra causata dalla follia degli adulti. L'anno zero del titolo è un anno che ancora deve venire, è quell'anno in cui si riuscirà a ricostruire un futuro per le nuove generazioni.

giovedì 4 ottobre 2018

Garage Demy (1991)

Garage Demy ricostruisce la biografia dell’infanzia e dell’adolescenza di Jacques Demy, celebre regista francese, noto soprattutto per i suoi musical e marito dell’autrice di questo film, Agnes Varda.Il film è costruito in maniera particolare, e alle immagini di Demy bambino e adolescente, si alternano altre di repertorio, del regista anziano oltre a spezzoni di suoi film, che si rifanno a precisi momenti della sua vita.



L’infanzia di Jacques, che tutti chiamano Jacquot (da cui il titolo originale “Jacquot de Nantes”), è un infanzia felice e spensierata; vive con il padre, gestore di un officina-garage, la madre parrucchiera occasionale e un fratello più piccolo. Fin da bambino si appassiona agli spettacoli del teatro dei burattini, che poi rappresenta a casa per la sua famiglia, passione che poi rivolge anche alla settima arte, prima disegnando un rudimentale cartone animato su una pellicola trovata in una discarica, poi filmando personaggi di cartone da lui stesso mossi, fotogramma per fotogramma, con una telecamera comprata vendendo i suoi giocattoli.



Inizialmente il padre è contrario a questa sua passione, poiché non crede che il figlio abbia il talento per sfondare in un mondo difficile e competitivo come quello del cinema, e preferirebbe che Jacques lavorasse con lui nell’officina. Tuttavia, dopo che il ragazzo ha mostrato una sua pellicola ad un importante regista, e che questi si è dimostrato entusiasta del lavoro del giovane, anche il genitore cambia idea, e lascia che il figlio si iscriva alla scuola sperimentale di cinema di Parigi, realizzando così il sogno del ragazzo.



A differenza di altri biopic, in cui di solito si ha un ricostruzione abbastanza fedele, ma piuttosto fredda, del protagonista; in questo caso siamo difronte ad un vero atto d’amore di una persona verso un’altra. Agnes Varda ci mostra la vita di suo marito, come ci stesse mostrando l’album di famiglia. Non a caso ogni tanto ci viene mostrato il vecchio Demy, morto prima che il film fosse ultimato, mentre sta scrivendo, o mentre racconta la fiaba ad un nipotino; quasi a chiudere un cerchio che non è solo il cerchio della vita, ma anche il completamento di una persona. Infatti lo Jacques  bambino e quello adulto sono molto simili, entrambi con la passione per la pittura, e per la narrazione altruistica di fiabe, e storie. Inoltre è facile notare come la regista abbia concentrato lo sguardo quasi esclusivamente sul protagonista, lasciando sullo sfondo lo stesso contesto storico nel quale il tutto si svolge.



Altro particolare interessante è la continua variazione tra colore e bianco e nero, senza un precisa logica, che oltre a conferire maggiormente il senso di intimità famigliare, ancor di più rende saldo il legame tra le varie età del protagonista, tra il Demy bambino e il Demy anziano, tra il passato e il presente; infatti la stessa autrice avrà a dire: "Filmavo le forze vive del bambino che era stato e vedevo l'adulto che perdeva le sue forze" . Un film particolare, che racconta l’amore di una persona per il cinema e l’amore di una donna per questa persona

mercoledì 9 marzo 2016

Infanzia Clandestina (2011)



Juan ha dodici anni, e ha vissuto gran parte della sua infanzia in esilio. Sul finire degli anni settanta, i genitori del ragazzino, militanti armati dell’organizzazione che si oppone alla dittatura militare al potere, e convinti peronisti, decidono di tornare in Argentina da clandestini, per continuare la lotta al potere. Così per i compagni di scuola, gli insegnanti e chiunque incontri fuori di casa, Juan diventa Ernesto, come il “Che”, l’eroe di cui i suoi genitori gli hanno raccontato le eroiche imprese. Ma mentre i suoi genitori continuano a combattere l’oppressione, Juan si innamora di Maria, la sorella di un suo compagno di scuola, e sogna una vita normale. 



La vicenda narrata da Avila, si basa in parte su fatti autobiografici, la madre è infatti uno dei molti desaparecidos, ma il regista, anziché sbatterci in faccia gli orrori causati dal regime Videla, ci mostra la difficile quotidianità, vista dagli occhi di un bambino, che sta per diventare uomo. Così, grazie allo sguardo di Juan/Ernesto, noi vediamo dall’interno il mondo ristretto dei ribelli, ma messo a nudo dall’ingenuità del ragazzino, così da svelarne le contraddizioni e l’irrazionalità. Juan ha imparato i principi e i valori che i genitori gli hanno insegnato, e non ha mai pensato di metterli in discussione, anzi nel tentativo di tenerli alti, in una significativa sequenza il bambino rifiuta di issare la nuova bandiera argentina, simbolo della dittatura militare, rischiando di far scoprire la sua vera identità. 



Tuttavia un mondo fatto di segreti continui, di riunioni clandestine, di armi e di nascondigli non è un mondo adatto ad un ragazzino e Juan ne prende coscienza quando si innamora di Maria, in quel momento, gli ideali dei genitori non sembrano più così assoluti e importanti, perché entrano in gioco gli affetti, e non gli sta più bene di essere obbligato ad uno stile di vita che gli nega la libertà di giocare con gli amici, o di amare qualcuno.  In questo modo il regista ci pone di fronte a molti dubbi, e a molte domande, lasciando a noi il compito di trovare le risposte, perché lui, come Juan, non giudica ma ci mostra in maniera analitica, come molti argentini vivevano in quel difficile periodo, chi per scelta e chi per obbligo. A rendere più lieve quell’assurda esistenza, è la figura di zio Beto, che cerca di donare un po’ di normalità all’infanzia di Juan,  riuscendo anche a organizzargli una festa per il suo finto compleanno. Avila è bravo nel non cadere nella trappola del sentimentalismo o del facile ricatto del voyerismo, e anziché mostrarci la violenza che la dittatura usa nei confronti degli oppositori, la tiene per lo più fuori dall’obiettivo e quel poco che viene mostrato, viene fatto attraverso scene animate (non so quanto sia volontario il rimando a Kill Bill vol.1), come le potrebbe vedere, o immaginare, un bambino spaventato, costretto suo malgrado ad assistere ad avvenimenti più grandi di lui.