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mercoledì 15 maggio 2019

Kamchatka (2002)

In attesa di nuovi post originali, che arriveranno nelle prossime settimane, ripesco ancora una volta una vecchia recensione onde evitare di far passare troppo tempo senza aggiornare il blog. 


Argentina 1976, il governo viene rovesciato da un colpo di stato, e molti contestatori militanti vengono perseguitati dal nuovo regime militare. Harry (un bravissimo Matías Del Pozo) e la sua famiglia sono costretti a lasciare la capitale e a nascondersi in campagna, per sfuggire alla cattura, ma il bambino ha solo dieci anni e inizialmente non capisce il perché di questa nuova vita e di tutti questi segreti. I genitori infatti preferiscono tenere nascosto  lui e a suo fratello minore, i veri motivi che gli hanno spinti a vivere in clandestinità e che alla fine li costringeranno ad un doloroso, quanto inevitabile gesto.



La tragedia dei “desaparecidos”, in questo film è lasciata sullo sfondo (cosa che a molti critici non è andata giù, accusando il film di eccesso di buonismo), per mostrare la problematica della fuga e della latitanza, vista dal punto di vista di un bambino. Qualsiasi genitore cercherebbe di tenere lontano dagli occhi dei figli, gli orrori che la vita, certe volte ci mette davanti; e così in questo caso i genitori di Harry (in realtà nuova identità che il ragazzino ha scelto ispirandosi al grande illusionista Houdini) prelevano i due figli da scuola e li portano a vivere lontano da casa e dagli amici, imponendogli di non avere più contatti con le persone che conoscevano prima, senza però dare loro convincenti spiegazioni.



E se per il Nano (soprannome con il quale la famiglia chiama il figlio più piccolo) basta un giocattolo per tornare a sorridere, per Harry la questione è diversa, lui sente la mancanza del suo migliore amico e l’assenza di spiegazioni da parte dei genitori, non fa che contribuire alla confusione che ha il bambino, perché comunque questi capisce che c’è qualcosa che non va, senza tuttavia poter realmente comprendere la drammaticità degli eventi e che percepisce dal comportamento degli adulti, da sussurri che sente nella notte, e da parole rubate ai discorsi dei grandi. Harry, intanto, si appassiona alla vita di Houdini, da cui cerca di apprendere l’arte della fuga, vista sia come arte illusoria dell’evasione, che come metafora della situazione che sta vivendo.



Ma ancora più importante  è l’allegoria legata al gioco del T.E.G. (sorta di Risiko), con cui Harry e suo padre passano molte ore liete, forse le ultime che passeranno assieme. Kamchatka (regione all’estremo oriente della Russia) è infatti uno dei territori che compongono il tabellone del gioco, noto per essere uno dei più difficili da conquistare e dunque sorto a simbolo di resistenza, la stessa resistenza che i genitori di Harry (interpretati da Ricardo Darín e Cecilia Roth) sperano che i loro figli riescano a trovare, per superare quel momento storico particolarmente difficile e per proseguire le loro vite da soli. 
Bellissime la fotografia e la colonna sonora; bravissimi tutti gli attori, sia i grandi che i piccini.

mercoledì 9 marzo 2016

Infanzia Clandestina (2011)



Juan ha dodici anni, e ha vissuto gran parte della sua infanzia in esilio. Sul finire degli anni settanta, i genitori del ragazzino, militanti armati dell’organizzazione che si oppone alla dittatura militare al potere, e convinti peronisti, decidono di tornare in Argentina da clandestini, per continuare la lotta al potere. Così per i compagni di scuola, gli insegnanti e chiunque incontri fuori di casa, Juan diventa Ernesto, come il “Che”, l’eroe di cui i suoi genitori gli hanno raccontato le eroiche imprese. Ma mentre i suoi genitori continuano a combattere l’oppressione, Juan si innamora di Maria, la sorella di un suo compagno di scuola, e sogna una vita normale. 



La vicenda narrata da Avila, si basa in parte su fatti autobiografici, la madre è infatti uno dei molti desaparecidos, ma il regista, anziché sbatterci in faccia gli orrori causati dal regime Videla, ci mostra la difficile quotidianità, vista dagli occhi di un bambino, che sta per diventare uomo. Così, grazie allo sguardo di Juan/Ernesto, noi vediamo dall’interno il mondo ristretto dei ribelli, ma messo a nudo dall’ingenuità del ragazzino, così da svelarne le contraddizioni e l’irrazionalità. Juan ha imparato i principi e i valori che i genitori gli hanno insegnato, e non ha mai pensato di metterli in discussione, anzi nel tentativo di tenerli alti, in una significativa sequenza il bambino rifiuta di issare la nuova bandiera argentina, simbolo della dittatura militare, rischiando di far scoprire la sua vera identità. 



Tuttavia un mondo fatto di segreti continui, di riunioni clandestine, di armi e di nascondigli non è un mondo adatto ad un ragazzino e Juan ne prende coscienza quando si innamora di Maria, in quel momento, gli ideali dei genitori non sembrano più così assoluti e importanti, perché entrano in gioco gli affetti, e non gli sta più bene di essere obbligato ad uno stile di vita che gli nega la libertà di giocare con gli amici, o di amare qualcuno.  In questo modo il regista ci pone di fronte a molti dubbi, e a molte domande, lasciando a noi il compito di trovare le risposte, perché lui, come Juan, non giudica ma ci mostra in maniera analitica, come molti argentini vivevano in quel difficile periodo, chi per scelta e chi per obbligo. A rendere più lieve quell’assurda esistenza, è la figura di zio Beto, che cerca di donare un po’ di normalità all’infanzia di Juan,  riuscendo anche a organizzargli una festa per il suo finto compleanno. Avila è bravo nel non cadere nella trappola del sentimentalismo o del facile ricatto del voyerismo, e anziché mostrarci la violenza che la dittatura usa nei confronti degli oppositori, la tiene per lo più fuori dall’obiettivo e quel poco che viene mostrato, viene fatto attraverso scene animate (non so quanto sia volontario il rimando a Kill Bill vol.1), come le potrebbe vedere, o immaginare, un bambino spaventato, costretto suo malgrado ad assistere ad avvenimenti più grandi di lui.