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mercoledì 4 agosto 2021

Geekoni Film Festival 2021: La mia vita da zucchina (2016)

Torna, dopo un anno di pausa, il Geekoni film festival; la versione blog del Festival di  Giffoni, dedicato al cinema per ragazzi.
Purtroppo non ho trovato il film che cercavo, che avevo visto un paio di volte diversi anni fa (direi almeno una trentina), in passaggi televisivi proprio in occasione di tale festival. A quanto pare riscire a recuperare un film danese per ragazzi del 1992 è quanto meno proibitivo. 
Ho dunque deciso di virare su un recente film d'animazione, un piccola perla che spicca tra i molti Disney e Dreamworks.


Icare è un bambino di nove anni, soprannominato Zucchina da sua madre, che passa le sue giornate chiuso in soffitta a disegnare, per lo più il padre scomparso e a fare piramidi con le lattine di birra vuote, lasciate in giro per casa proprio dalla genitrice, che altro non fa che ubriacarsi e guardare la tv.
Quando anche la madre muore, in seguito ad una caduta dalle scale, Zucchina viene accompagnato in una casa famiglia, dove farà la conoscenza di altri bambini con problemi famigliari alle spalle.
Dopo un inizio difficile, Icare riuscirà a inserirsi nel gruppo, superando la spavalderia dietro la quale si nasconde il piccolo Simon.
Quando poi arriverà Camille, bambina con la quale stringerà una forte amicizia, Zucchina riuscirà a maturare maggiormente, riuscendo ad affrontare e a superare il suo dolore.


"La mia vita da zucchina" è un film d'animazione, presentato al Festival di Cannes nel 2016 e poi proiettato in vari festival in tutto il mondo ed è stato candidato all'Oscar come miglior film d'animazione nel 2017.
Lungo appena 66 minuti e realizzato in stop motion, il film è una delicata favola sull'infanzia violata, sulla solitudine, sulla crescita personale e sull'amicizia. Tratto dal romanzo "Autobiographie d'une courgette", il regista, Claude Barras, ci mostra il mondo con lo sguardo dei bambini protagonisti, a volte tristi e spaventati, altre volte buffi e divertenti senza mai eccedere da una parte o dall'altra, grazie anche alla sapiente sceneggiatura di Céline Sciamma, che ha più volte raccontato con delicatezza l'infanzia e l'adolescenza ("Tomboy", "Diamante nero"...).


Nel film vengono raccontate storie drammatiche, eppure grazie anche alla scelta di usare personaggi di plastilina, il tutto ha un tocco leggero, ma non grossolano così le vicende dei piccoli protagonisti riescono ad arrivarci al cuore e a farci versare qualche lacrima, anche per un finale dolce-amaro, che però ci ridà fiducia verso quel mondo adulto che spesso è causa dei mali dei più piccoli.

Belle le musiche di Sophie Hunger, tra le quali spicca la cover de "Le vent nous portera".



mercoledì 19 febbraio 2020

I telefilm dimenticati (5) - La Gang degli Orsi

Il baseball è lo sport nazionale americano ed è stato al centro di diverse trame cinematografiche. Tra i numerosi titoli, uno dei più popolari è stato Che botte se incontri gli "Orsi" (The Bad News Bears) del 1976 che aveva come protagonisti Walter Matthau e Tatum O'Neal.
Il film racconta dell'ex giocatore Morris Buttermaker (Matthau), che diventato un allenatore alcolizzato, viene reclutato per addestrare una squadra della lega giovanile, ma soltanto quando nel club entrerà a far parte la lanciatrice Amanda Whurlizer (Tatum O'Neal), la scapestrata squadra comincerà a vincere partita dopo partita.




Grazie al successo della pellicola, verranno realizzati due sequel di minor successo (Gli Orsi interrompono gli allenamenti e Gli Orsi vanno in Giappone) e nel 1979 di una serie tv.
Nel ruolo che fu di Matthau c'è Jack Warden, che qui diventa un ex addetto alle pulizie di una piscina, che per evitare la prigione accetta di allenare la mal assortita squadra di baseball degli Orsi.



La Gang degli Orsi fu prodotta dalla CBS per un totale di 26 episodi, di cui 23 della prima stagione e tre della seconda, poi interrotta a causa dei bassi ascolti. Ciò fu dovuto sia per una trama meno avvincente rispetto al film e più incentrata sulla commedia che sugli aspetti drammatici, sia per il continuo cambio di orari nel palinsesto televisivo.



La serie arrivò per un breve periodo anche in Italia nel 1980, trasmessa in emittenti locali.
Tra il cast, nel ruolo del piccolo Regi, c'era Corey Feldman, futura star di film per ragazzi come I Goonies, I Gremlins, Stand by me e molti altri.
Altra cosa da segnalare è che come sigla del telefilm è stata usata l'aria Toreador de La Carmen di Bizet.

Fonti: Wikipedia e Serietv draconia

martedì 29 ottobre 2019

I bambini del cielo (1997)

Alì, tornando a casa dal calzolaio, si fa rubare le scarpe di sua sorella Zohre. La loro famiglia è povera, la madre è malata e il padre lavora molte ore per un misero stipendio, per cui, per non venir sgridati e per non dare ulteriori preoccupazioni alla famiglia, i due bambini decidono che si divideranno le scarpe di Alì.




I bambini del cielo” è uno di quei rari film iraniani che è riuscito a vedere la luce anche al di fuori del proprio paese, vincendo anche l premio come miglior film al Festival Internazionale di Montreal. Il regista, Majid Majidi, si rifà chiaramente al cinema neorealista italiano, girando un film ad altezza di bambino, permettendoci così di vedere la realtà attraverso gli occhi dei due piccoli protagonisti. La macchina da presa segue così le scarpe, che diventano così le terze protagoniste della storia, attraverso le vie di una Teheran povera ed ancora arretrata, con la tecnica del pedinamento, particolarmente care a De Sica e Zavattini.





Il film è dunque una sorta di denuncia contro la società iraniana contemporanea, in cui le differenze sociali sono enormi (basti vedere le sequenze in cui Alì e suo padre vanno in cerca di lavoro nei quartieri ricchi della città). Alì e Zohre, sono così costretti a fare la staffetta con le sole scarpe del bambino, ma mantenere il segreto è difficile, perché Zohre con quelle scarpe troppo grandi, che rischia anche di perdere, si sente a disagio, lei vorrebbe le sue scarpe da femminuccia. Poi quando è il turno di Alì di indossarle, il ragazzino arriva sempre in ritardo a scuola, rischiando più volte di venire punito.




Majid Majidi tuttavia, usa una mano piuttosto leggera nel raccontarci la storia dei due bambini, donando al film un tocco fin troppo edulcorato, in cui non risulta esser ci nessun personaggio totalmente negativo e in cui non si raggiunge un vero e proprio climax nemmeno nel finale, che nonostante potrebbe risultare beffardo, viene anticipato da una breve sequenza, che assicura l’happy end, abbassando così il potenziale critico del film. Malgrado ciò, la forza maggiore della pellicola, è la poetica di cui traspare, dalla prima all’ultima scena, grazie soprattutto ai due piccoli protagonisti non professionisti, capaci di un espressività e di un intensità emotiva, che non possono non commuovere.



In questo senso, acquistano maggior forza, sia la sequenza della gara di corsa, in cui Alì, quando si vede disonestamente ostacolato, andrà oltre le proprie forze, vincendo la gara, ma perdendo l’occasione di vincere un paio di scarpe nuove, sia nel finale vero e proprio, quando vediamo il bambino sconsolato, dare riposo ai piedi distrutti dalla faticosa corsa, mettendoli nella fontana del cortile, consolato solo dai pesci rossi, che sembrano volersi prendere cura dei piedi del ragazzino. In sostanza un film che sarebbe potuto essere più incisivo, ma dalla bellissima poetica, e che dovrebbe essere mostrato nelle nostre scuole, ma non soltanto, per farci rendere conto, quali sono i veri valori della vita, altro che l’ultimo modello di I-pod…

giovedì 4 aprile 2019

Certi bambini (2004)

Quest'anno è uscito il film "La paranza dei bambini", film tratto dall'omonimo romanzo di Roberto Saviano, ma la difficile vita dei bambini e ragazzi dei quartieri poveri di Napoli, che trovano nella criminalità l'unica via d'uscita dalla miseria in cui sono costretti a vivere, è stata raccontata nel 1991 nel film "Vito e gli altri" e poi nel 2004 con questo bel "Certi bambini" dei fratelli Frazzi




Il film, basato sull’omonimo romanzo di Diego De Silva, racconta la vita disagiata, di un gruppo di ragazzini nei quartieri più poveri di Napoli, e in particolare quella dell’undicenne Rosario, le cui giornate sono in perenne bilico tra le amorevoli cure per la nonna malata, il volontariato all’oratorio e le rapine, i furti, e pericolose “roulette russe” sulla tangenziale, compiute con gli amici.
Andrea e Antonio Frazzi ci mostrano uno spaccato di realtà, che se anche noto, viene spesso dimenticato, o nascosto sotto al tappeto, realtà che vede coinvolti tanti bambini, che hanno come unica maestra di vita la strada, e come solo futuro, quello della delinquenza.



La storia ci viene narrata in diversi flashback, mentre Rosario in metropolitana, si avvia verso il suo inevitabile destino. Vediamo così i ragazzini che si prostituiscono con un vecchio pedofilo, che li sfrutta anche per rapine e furti; bambini che giocano alla roulette russa, attraversando di corsa la trafficata tangenziale, undicenni che passano le loro giornate in sala giochi o al bar, a fumare sigarette e scherzare. Contemporaneamente assistiamo alla parte buona della vita di Rosario, quella in cui si prende cura della nonna, o quella delle giornate passate come volontario all’oratorio, dove il ragazzo incontra Caterina, una ragazza più grande di cui si innamora, e Santino uno dei volontari, che cerca di portare Rosario verso la buona strada, figura che si contrappone a quella di Damiano, che invece vuole fare di lui un killer per la mafia.



Il buon cuore di Rosario ci viene mostrato anche nella sequenza in cui, in cerca di una facile avventura sessuale, con i suoi amici si rivolgono ad una signora che fa prostituire le figlia, ma resosi conto che questa, è una bambina ancora più giovane di loro, preferisce desistere. Tuttavia la morte di Caterina, e la conseguente voglia di vendetta, porteranno Rosario a scegliere la strada della delinquenza.



I bambini dei fratelli Frazzi, che molto devono al film “Vito e gli altri” di  Antonio Capuano, compiono atti di delinquenza, allo stesso modo in cui si compiono quelli d’affetto, poiché non hanno la capacità di diversificarli, nessuno ha spiegato loro la differenza tra bene e male, sono cresciuti in ambiente dove tutto e ambiguo e privo di moralità, tanto che anche dopo un omicidio, si può tranquillamente giocare una partita di calcio.



Certi bambini” è un film crudo, per nulla buonista, che denuncia una tremenda realtà, che non avviene in lontane baraccopoli del Sud-America, ma qui, sotto il nostro naso, sotto l’indifferenza e l’incapacità delle autorità a fermare questa piaga.

sabato 16 febbraio 2019

La guerra dei bottoni (1962)

Impegni personali e imprevisti vari mi hanno di nuovo tenuto lontano dai miei doveri di blogger per cui prima di lasciar passare ancora più tempo senza aggiornamenti, vado di nuovo a pescare tra le vecchie recensioni.




Tra i paesi di Veltrans e Longeverne, nella campagna francese, c’è stata a lungo una forte rivalità, ma se ora gli adulti hanno imparato ad andare d’accordo tra di loro, non è così per i ragazzini, che continuano a farsi la guerra, con spade di legno, sassi e botte da orbi. Quando una delle due bande riesce a fare un prigioniero, lo priva di bottoni, fibbie, cinture e lacci delle scarpe, costringendo il malcapitato a tornare a casa, reggendo i pantaloni con le mani e dunque a subire il rimprovero dei genitori oltre ad un’imbarazzante umiliazione.


Robert, il capo dei caimani , per evitare le punizioni paterne, che inoltre lo minaccia di mandarlo in collegio, si inventa di combattere nudi, ma con l’arrivo dei primi freddi questa tattica diventa improponibile. Il gruppo pensa così di comprare bottoni e cinghie, che assieme al bottino di guerra, verrà usato per ricucire i vestiti danneggiati. Un traditore però avverte Zazzera, capo dei falchi, su dove si nasconda il nascondiglio segreto, vanificando così il lavoro dei compagni. Il finale vede Robert arrivare al collegio, dove incontra Zazzera, anche lui spedito li dai genitori. I due ragazzi si scoprono così più simili di quanto avessero pensato e diventano subito amici.



Sulla falsa riga dei “I ragazzi della via Pal”, Yves Robert, mette in scena questa commedia vivace e spigliata, tratta dal romanzo omonimo di Louis Pergaud, più volte portato sul grande schermo, anche se questa rimane quella più conosciuta e riuscita. Seppur metafora del mondo degli adulti (e in particolare sulla guerra) e su come questo viene percepito dai più piccoli, la battaglia tra le due fazioni non ha nulla di veramente aggressivo, anche se combattuta con armi potenzialmente pericolose come spade di legno o sassi, ma ha più un valore ludico, un gioco ad imitare gli adulti che si fanno (realmente) la guerra.



Tuttavia in questo conflitto, i bambini si dimostrano, ancora una volta, più sensibili dei grandi, come nella scena in cui decidono una temporanea tregua per soccorrere assieme un coniglio ferito. La stessa sensibilità si nota nei discorsi che i ragazzini fanno nell’organizzarsi per lo scontro, che con serietà parlano di ricchezza e povertà, repubblica e monarchia,  uguaglianza e ingiustizia, argomenti difficili e delicati, ma che loro affrontano con ingenua autorevolezza.



Gli adulti, in questo film, sono personaggi di contorno, portatori unicamente di una morale punitiva, dimenticandosi probabilmente, di essere stati ragazzini a loro volta e soprattutto che la rivalità tra le due bande è dovuta a loro.
Yves Robert dirige un film dinamico e divertente, privo o quasi di tempi morti, che ancora oggi si fa vedere con piacere. Bravissimi i giovani protagonisti, simpatici e genuini nella loro naturalezza.

lunedì 4 febbraio 2019

La prima neve (2013)

In un periodo in cui l'immigrazione è al centro delle discussioni politiche e non, vi ripropongo una vecchia recensione di un film che affronta, a modo suo, tale problematica



Dani è arrivato dal Togo, passando per la Libia, e poi attraverso il mare, su una di quelle carrette del mare, che trasportano centinaia di profughi, in cerca di una via di fuga, e che in questi giorni riempiono le pagine di cronaca di quotidiani e telegiornali. Insieme a lui c’è la moglie incinta, che però muore una volta giunta in Italia, nel dare alla luce la piccola Fatou.
L’uomo non riesce a darsi pace per questo e vedrà negli occhi della figlia, la causa della morte di sua moglie. Anche quando viene inviato in un centro di accoglienza tra le montagne trentine, Dani continua a tormentarsi e aspetta soltanto di ricevere il foglio di via, per poter andare a vivere a Parigi, con l’idea di abbandonare la figlia, sperando che trovi una famiglia che si occupi di lei.



Nel frattempo Dani lavora per Pietro, falegname e apicoltore, che cerca di dare alcuni consigli al giovane immigrato ("Le cose che hanno lo stesso odore devono stare assieme"). Qui conosce anche Michele, nipote di Pietro, un biondo ragazzino di undici anni, dal carattere ribelle, che in realtà cela il dolore e il rimorso per la morte del padre, avvenuta durante un’escursione in montagna.
Il bambino soffre e spesso rivolge questa aggressività contro la madre, che ritiene responsabile assieme a lui, di quanto accaduto. In una delle scene più belle del film, assistiamo ad un incubo ricorrente di Michele, sperduto nel bosco così familiare, ma allo stesso tempo così estraneo.



Tra Dani e Michele nasce presto un’intima anche se pudica amicizia, dovuta inizialmente alla curiosità del diverso, di qualcosa di sconosciuto che però non è così diverso da se stessi. Infatti il dolore che i due protagonisti provano è qualcosa che li accomuna e che è destinato a legarli anche nel futuro. Un po’alla volta Dani, riscopre l’amore per la figlia e scopre di essersi affezionato a Michele, che a sua volta ha ritrovato una figura adulta di riferimento, che lo possa aiutare a superare il lutto e a diventare finalmente uomo.



Dopo “Io sono Li”, Andrea Segre torna a parlarci di immigrazione, ma in questo caso, invece di mostrare la problematica dal punto di vista sociale, l’espediente narrativo serve a rappresentare un percorso più intimo, che va a toccare corde sensibili. A differenza del suo film d’esordio, Segre inserisce il protagonista, in una comunità che lo accetta, in cui non trova ostacoli alla sua integrazione ;qui infatti sono la natura e il territorio circostante a rendere difficoltoso l’inserimento dell’elemento estraneo, che deve fare in conti con un ambiente tanto affascinate, quanto ostile.



Ed è proprio nella rappresentazione della montagna, tra i verdi boschi e le alte vette che il regista veneto, da il meglio di se, mostrando la sua formazione da documentarista. Complessivamente forse il film è leggermente meno riuscito di “Io sono Li”, ma in più ha una sensibilità poetica, che ne fa un film da ricordare.

venerdì 16 novembre 2018

Stella (2008)

Stella ha undici anni, e vive con i suoi genitori che gestiscono un bar-locanda nella banlieue parigina, frequentato per lo più da disadattati e alcolizzati. Quando inizia a frequentare la prima media, di un istituto “borghese”, la ragazzina sente che manca qualcosa nella sua vita; infatti mentre sa tutto sul calcio, sui giochi di carte e sui “fatti della vita”, all’inizio a scuola ha solo brutti voti. L’amicizia con una compagna di classe, figlia di intellettuali argentini la spingerà a migliorarsi e a desiderare qualcosa di più di quello che la vita le ha dato finora.



Stella è un piccolo film francese, da noi distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti, ma in talmente poche copie che pochissimi lo conosceranno. Eppure è un film che merita molta attenzione; delicato e intelligente strizza l’occhio sia al Truffaut de “I quattrocento colpi” e “Gli anni in tasca”, sia allo stile dei fratelli Dardenne. Impossibile non affezionarsi alla piccola protagonista, una bravissima Léora Barbara, costretta a crescere in un ambiente non adatto ad una ragazzina della sua età. I suoi modelli sono ubriaconi, giocatori incalliti, piccoli criminali; assiste spesso a risse e una volta persino ad un omicidio.



E i suoi genitori non sono figure migliori, con i loro problemi (di coppia e personali) non riescono a seguire la figlia nel delicato periodo del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Così Stella si costruisce un muro, una barriera che le impedisce di relazionarsi con gli altri e di esplorare strade diverse, rassegnata all’ignoranza che il suo contesto sociale pare volerle cucire addosso. Tuttavia, quando comincia a frequentare una scuola nuova, comincia a sentire l’esigenza di adattarsi a questa nuova realtà, di essere più simile a quei compagni così “intelligenti”.



Inoltre sente il bisogno di avere dei veri amici, che non siano gli adulti che frequentano il bar, che pure si sono affezionati a lei (qualcuno fin troppo) e che non sia nemmeno l’amichetta  delle vacanze, una ragazzina un po’ troppo spigliata e precoce, a cui è legata solo dai ricordi di un infanzia spensierata, fatta di giochi e scherzi. Ed ecco, allora conosce Gladys, una ragazzina figlia di gente di cultura; e quest’amicizia spinge Stella a migliorarsi, a impegnarsi nello studio,  per uscire da  quell’ambiente che ormai sente stretto.



Molto brava Sylvie Verheyde, sia nel disegnare il personaggio di Stella, per cui, dice essersi ispirata alla propria vita ed esperienza. Ben delineati gli ambienti che la bambina frequenta maggiormente: il bar e la scuola, entrambi con i loro personaggi, alcuni positivi altri negativi, ma tutti utili per l’evoluzione della protagonista.
Certo il film non è perfetto; alcuni personaggi e alcune situazioni avrebbero richiesto un maggiore approfondimento, ma tutto sommato l’opera si mantiene sempre su un livello molto buono e riesce ad coinvolgere emotivamente.



Tenera la sequenza del ballo alla festa, che non può non ricordare quella de “Il tempo delle mele”, ma senza la furbizia calcolata del film Claude Pinoteau (anche perché i due film affrontano tematiche diverse). Una curiosità è che il film è uscito con il divieto ai minori di quattordici anni, forse a causa di alcuni argomenti delicati, o da parte del linguaggio, ma mio avviso, un divieto quanto meno discutibile…
In ogni caso un film da vedere e recuperare.

mercoledì 2 maggio 2018

La mia vita a quattro zampe (1985)

Ripesco, ancora una volta, una vecchia recensione in attesa di qualcosa di nuovo appena avrò un po' più di tempo...



Svezia, fine anni 50. Ingem
ar vive con la madre e il fratello maggiore in un piccolo centro, mentre il padre è lontano per motivi di lavoro. Giochi, risate e qualche sgridata caratterizzano le giornate del bambino, fino a quando la madre si ammala di tubercolosi. Il bambino deve dunque trasferirsi a casa di uno zio, a nord, abbandonando anche Sikkar, il suo amato cagnolino.


Qui incontrerà molti strani personaggi: un vecchio malato che si fa leggere dal ragazzo cataloghi di biancheria intima per signora; un altro strampalato signore che passa tutto il tempo ad rattoppare il suo tetto, Berit, la bella del paese, che posando nuda per un eccentrico artista, si fa accompagnare dallo stesso Ingemar per evitare eventuali pettegolezzi e che, una volta, il ragazzino spierà dal lucernario dello studio, finendo però per sfondarlo e piombando quasi addosso alla donna. C'è poi Saga, una ragazzina con atteggiamenti da maschio, bravissima nel calcio e nella boxe. In mezzo a tutti questi personaggi, Ingemar se la caverà grazie alla sua filosofia: "...poteva andare peggio". Uno dei suoi esempi preferiti riguardo a questa filosofia è quello della cagnetta Laika, spedita nello spazio dai russi, e morta dopo poche settimane per mancanza di cibo e acqua. Questa sorte, sembra a Ingemar, molto peggiore dei suoi problemi.


Tornato a casa per l'invero, la felicità durerà poco, infatti poco dopo la madre avrà una ricaduta e morira. Il bambino si trasferisce così definitivamente a casa degli zii, con l'unica speranza di riabbracciare presto il suo adorato Sikkar. Tuttavia durante una lite, l'amica Saga, gli rivela che il cagnolino è morto da tempo, così Ingemar andrà a chiudersi nella "casa dei giochi" costruita dallo zio, dove passerà tutta la notte, piangendo e dando sfogo a tutto il dolore per la perdita della madre, che aveva fin'ora tenuto represso, ripetendosi che avrebbe dovuto parlarle di più. Ne uscirà il mattino dopo rafforzato e pronto ad affrontare l'età adulta.


Hallstrom, fa tesoro della lezione imparata da Truffaut (I 400 colpi) e racconta con delicatezza una fase cruciale della vita di ogni persona, infatti qui Ingemar ricorda il suo passaggio dall'adolescenza all'età adulta, dalla suo prospettiva "a quattro zampe" alla coscienza dei fatti della vita. Come quasi tutti i più bei film sull'adolescenza, dal già citato "I 400 colpi" ad "Arrivederci ragazzi" di Louis Malle, ma anche a "Stand by me" di Rob Reiner, anche il film del regista svedese punta sui due elementi fondamentali "ricordo" e "passaggio". Ed è forse qui che si differenziano i film sui ragazzi, dai film per ragazzi. Il film di Hallstrom è infatti un film per adulti, è il ricordo di un ragazzino di dodici anni che scopre all'improvviso di avere un passato e con esso fa conti, lasciandoselo, infine, alle spalle.


Lo sguardo con cui affronta questo cambiamento è all'inizio uno sguardo straniato, esterno quasi fosse quello del suo cane. E in questa visione a "quattro zampe" il mondo pare strano e folle, come i personaggi che lo popolano, ma una volta che riuscirà ad affrontare il suo passato, darà un significato anche alla morte di sua madre, e allora inizierà a "fare i confronti", enumerando così le più strane ingiustizie di cui è a conoscenza e al cui confronto, la morte della madre appare ridimensionata. Ed ecco che "trovando la giusta distanza dalle cose", trova anche il suo spazio nel mondo degli adulti.

venerdì 30 marzo 2018

Una pazza giornata di vacanza (1986)

In questi giorni non ho avuto molto tempo per pensare e scrivere un nuovo post, ma non volendo stare tanto tempo senza aggiornare il blog riporto, come ho già fatto in passato, una mia vecchia recensione, in attesa di qualcosa di nuovo nelle prossime settimane. Un saluto a tutti e Buona Pasqua!



Ferris Bueller è un diciottenne come tanti, con molti amici e poca voglia di studiare. Un giorno decide di prendersi l'ennesima vacanza da scuola fingendosi malato; i genitori, che lo adorano, non possono non credergli, anzi sono quasi dispiaciuti per doverlo lasciare a casa da solo, mentre loro vanno al lavoro. Appena però il ragazzo rimane solo darà vita ad una bella vacanza a Chicago, coinvolgendo la sua fidanzata Sloane, e l'amico ipocondriaco Cameron, che convincerà anche a "prendere in prestito" la Ferrari, dell'odiato padre. 



In città i tre amici passeranno una giornata indimenticabile, riuscendo anche a tornare a casa in tempo per non far scoprire l'inganno, nonostante i continui interventi dell'odioso preside e dell'invidiosa sorella di Ferris. John Hughes ci sapeva decisamente fare con la commedia giovanilistica, inquadrando molto bene la natura degli adolescenti anni 80, senza però volgarità o banalità. E questo film non fa eccezione. "Una pazza giornata di vacanza" fa parte di quel movimento di commedie denominato "Brat Pack", anche se mancano alcuni degli attori feticcio di Hughes, che di quel movimento erano veri e propri esponenti, ed è un film completamente pop, che trasuda lo spirito anni 80 da ogni poro.



Una commedia semplice ed allegra, ricca di momenti divertenti, grazie alle trovate di Ferris per non farsi beccare a "fare sega", con elementi tipici della cinematografia hughesiana, come il tema del viaggio o la bellissima sequenza ballata sulle note di Twist & Shout.



Alla fine però il film si rivela per quello che è; una metafora sul passaggio dall'adolescenza all'età adulta, e questo si capisce sia dal finale, quando Cameron decide di voler affrontare il padre, sia dalla sequenza in piscina, quando Ferris, rivolto direttamente al pubblico facendo uso della tecnica Camera Lock (cosa che farà praticamente per tutto il film), spiega che dall'anno seguente i due amici dovranno separarsi per seguire ognuno la sua strada. Insomma un piccolo cult movie generazionale.



giovedì 30 novembre 2017

This is England (2006)

Siamo nella prima metà degli anni 80; gli anni delle mode colorate e dei primi videogames, gli anni di "Supercar" e del cubo di Rubik, gli anni dell'aerobica in tv e della nascita dei CD, ma soprattutto gli anni di Margareth Tatcher, che con la sua politica monetaria, fece aumentare disoccupazione e disagio sociale e portò l'Inghilterra a combattere un conflitto bellico, per appropriarsi di un insignificante arcipelago al largo dell'Argentina, le isole Falkand .



Ed è in questo ambiente che cresce Shaun, dodicenne orfano di padre, proprio a causa della guerra delle Falkland e vessato dai bulli della scuola per il suo aspetto e per il suo modo di vestire. Nonostante il ragazzo non si faccia mettere i piedi in testa da nessuno, compresi ragazzi più grandi di lui, è comunque solo e bisognoso di figure di riferimento, figure che troverà in un gruppo di skinheads che lo prendono in simpatia e lo accolgono sotto la loro ala protettrice. 




Questo gruppo eterogeneo, appartiene all'idea originale di skinheads, quelli che ancora non si erano fatti influenzare dalla politica e dell'odio razziale. All'inizio le cose vanno bene per Shaun, tra giochi, qualche innocente goliardata e le prime sorsate di birra, il bambino trova il tempo di innamorarsi (ricambiato) di una (strana) ragazza più grande di lui. Uno degli aspetti più divertenti, ma anche più significativi del film è come la madre di Shaun, poco si preoccupi (viene fatto appena un accenno) che il figlio frequenti ragazzi più vecchi di lui e che una ragazza di vent'anni ricambi l'amore di un bambino di appena dodici...



A scombinare l'equilibrio, arriva Combo, che ha passato tre anni in prigione e ora è tornato per riprendere la leadership della banda. Ma Combo parla di nazionalismo, e accusa neri e pakistani dei problemi dell'Inghilterra, mosso da sentimenti xenofobi e razzisti. Il gruppo si sfalderà così in due, uno con a capo Woody, più tranquillo e legato alle vere tradizioni del movimento, l'altro guidato da Combo, che predica un patriottismo estremista e l'odio contro chiunque venga da fuori dal regno. 



Shaun affascinato dalla figura carismatica di quest'ultimo, deciderà di rimanere con il secondo gruppo, facendosi influenzare dalla loro mentalità violenta e nazionalista. Tuttavia ben presto verrà alla luce l'anima fragile di Combo che, affranto perché innamorato, ma non ricambiato, e geloso della bella famiglia unita di Milky, un componente di colore della band, si sfogherà contro quest'ultimo massacrandolo di pugni, fino a ridurlo in fin di vita.




Spaventato da tanta aggressività, Shaun aprirà finalmente gli occhi, non solo sul nuovo amico, ma sul mal di vivere in generale.Film molto bello, con valori validi tanto al tempo nel quale è ambientato, quanto ancora oggi e che in questo strano paese a forma di scarpa, è uscito ben cinque anni dopo aver partecipato e vinto il festival di Roma....






giovedì 16 novembre 2017

Kauwboy (2012)



Jojo ha dieci anni e vive solo con il padre, un uomo duro e severo, che affoga i propri problemi e dispiaceri nell’alcool, arrivando talvolta a essere violento con il figlio, mentre la madre del bambino, una cantante country di successo, pare essere in tour in America. Jojo si trova così a essere spesso da solo ad affrontare le problematiche di un ragazzino della sua età, ma anche ad avere responsabilità che non gli competerebbero: di giorno va a scuola e gioca a pallanuoto, la sera si occupa della casa e se ne va a letto da solo, poiché il padre lavora di notte.
 Qualche volta il bambino telefona alla madre, raccontandole le sue giornate, e spesso mentendo sul rapporto con suo padre.



Le cose cambiano quando, giocando in un campo, Jojo trova un piccolo di taccola (uccello della famiglia dei corvidi) caduto dal nido, e ferito e decide di prendersene cura portandolo a casa con se; tuttavia deve fare attenzione perché suo padre non vuole animali in casa. Ben presto Jojo trova nel piccolo corvo, che lui ha chiamato Kauw, il conforto e l’affetto che il padre non riesce a dargli e ne parla anche con la mamma, nelle sue lunghe telefonate, dicendole che quando fosse tornata, avrebbe trovato una bella sorpresa.  Tuttavia, quando l’uomo scopre il segreto del figlio, lo costringe a liberarsi dell’animale, causando anche la rabbia e la frustrazione del bambino, che di nascosto continua a occuparsi del piccolo amico.





Purtroppo, questo precario equilibrio, viene spezzato dalla presa di coscienza, da parte di Jojo della morte della madre, che fino a quel momento si era rifiutato di accettare. In tal senso, è particolarmente forte la sequenza in cui il bambino vuole festeggiare a tutti i costi il compleanno della mamma e quando il padre lo obbliga a togliere gli striscioni e le bandierine a stelle e strisce, lui si ostina a cantare “Happy Birthday” alla madre assente, con tutta la rabbia che ha in corpo, sputando le parole in faccia al padre. 
Ed è solo dopo l’ennesimo litigio, che padre e figlio riusciranno a ritrovarsi e assieme ad affrontare il dolore per la perdita di una moglie e di una madre.




L’amicizia tra bambini e animali è stata spesso al centro di pellicole cinematografiche, ma non sempre il risultato è stato pari alle intenzioni iniziali.

Un film simile a “Kauwboy” è “Kes” di Ken Loach, che racconta sempre l’amicizia tra un ragazzino e un uccello, ma se nel film del regista britannico, la tematica si incentrava soprattutto sul disagio sociale, e sulla ricerca di un posto all’interno della società stessa, nel caso del film di Boudewijn Koole, il soggetto è più intimista e delicato, infatti il regista racconta con garbo e sensibilità la difficile fase dell’elaborazione del lutto, vissuta dalla parte di un bambino, che proprio per la giovane età, fatica maggiormente ad accettare la morte di un caro.
Nel film, il lutto viene svelato lentamente, anche se fin dall’inizio è intuibile che ci sia qualcosa che non va, e allo stesso modo che nella vita vera, prima di accettare la perdita, prima bisogna passare attraverso le fasi della negazione e della rabbia.



Tuttavia Koole, riesce a non cadere mai nel banale o nella facile trappola della pietà dipingendo un quadro ruvido e denso di sofferenza, ma capace anche di abbandonarsi alla fantasia, proprio come farebbe un bambino che si crea un mondo ideale nel quale rifugiarsi, per fuggire alle cattiverie della vita. E il piccolo corvo inizialmente rappresentazione dell’affetto sostituito, diventa alla fine il simbolo della presa di coscienza del lutto, ma anche della fine dell’infanzia di Jojo, che si avvia a diventare adolescente. Bravissimo il piccolo protagonista, che riesce a conferire intensità al suo personaggio, creando quella giusta empatia che non sfocia nel patetismo.