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venerdì 18 ottobre 2019

I cartoni dimenticati (4): Jacky, l'orso del monte Tallac

Un altro prodotto della Nippon Animation oggi poco ricordato, è "Jackie, l'orso del monte Tallac" (Seaton, debutsuki kuma No ko Jackie) tratto dal romanzo "Monarch, The Big Bear of Tallac" pubblicato nel 1904 dallo scrittore Ernest Thompson Seton.




La storia narra dell'amicizia tra Senda, un piccolo indiano che vive assieme al padre nelle praterie canadesi, nei pressi del monte Tallac e due cuccioli di grizzly che il bambino chiama Jackie e Nuka.
Un giorno Kellyan, il padre di Senda, è costretto ad uccidere la madre dei due orsacchiotti per salvare un bracconiere che le stava dando la caccia. Senda e suo padre decidono quindi di occuparsi dei due cuccioli rimasti orfani, ad aiutarli ci saranno anche zio Dimas, un vecchio cercatore d'oro e da Olga, la figlia dell'uomo a cui Kellyan ha salvato la vita.



Ben presto Jackie e Nuka dovranno imparare a difendersi dai pericoli della natura e dalla malvagità dell'uomo, ma dopo un lungo inverno, torneranno sul monte Tallac, non prima di aver salutato il loro amico Senda.




Andato in onda per la prima volta tra il giugno e il dicembre del 1977 in Giappone, l'anime,composto da 26 episodi, è arrivato in Italia nel 1983 passando per lo più per emittenti locali, tra cui Antennatre.
Il cartone, indirizzato ad un pubblico di età compresa tra i sei e i dieci anni, puntava su valori quali il rispetto della natura, l'amicizia e la capacità di superare gli ostacoli con le proprie forze.



Il character desing, a opera di Yasuji Mori, è tutto sommato piuttosto buono soprattutto quello dei due piccoli orsi. Meno riuscito è il doppiaggio, ma va ricordato che a dare la voce a Jackie (e ad altri due personaggi) è la compianta attrice Anna Marchesini.




Molto bella la colonna sonora realizzata per l'Italia e la Spagna dai Royal Jelly, ovvero gli Oliver Onions, che dedicano un intero album monografico alla serie intitolato Jacky.
L'opera ha vinto in Giappone il Premio Ministero della cultura per l'infanzia nel 1978 e sempre in quell'anno il Premio della salute pubblica per il suo contributo all'educazione infantile.
Per quanto mi riguarda, pur non sovvenendomi nessun episodio in particolare, ricordo che era un anime che mi piaceva e che seguivo volentieri.



Fonti:
Wikipedia
AnimeClick
Cartoniscomparsi

         

martedì 2 luglio 2019

I cartoni dimenticati (3): Lucy May

Tra i vari progetti della Nippon Animation, per un lungo periodo, c'è stato il World Masterpiece Theater, in cui vennero prodotti degli anime ispirati a romanzi per ragazzi, per lo più di origine occidentale. Tra i vari titoli si possono ricordare Marco, Anna dai capelli rossi, Tom Story, Flo la piccola Robinson, Pollyanna e molti altri tra cui l'anime di cui parlerò oggi: Lucy May.



Basato sul romanzo Southern Rainbow di Phyllis Piddington, Lucy May (Minami no Niji no Rūshī)  è incentrato sul personaggio di Lucy May Popple, che assieme alla sua famiglia si trasferisce in Australia, dall'Inghilterra, alla fine del XIX secolo. Fin da subito le cose si riveleranno più dure di quanto la famiglia si aspettasse, ma dopo varie vicissitudine tutto terminerà per il meglio.La serie, composta da cinquanta episodi, è stata trasmessa per la prima volta in Italia il 26 settembre 1983 da Italia 1, per poi essere replicata qualche anno più tardi su Rete 4 e dopo più di vent'anni d'assenza di nuovo mandato in onda su Mediaset Premium Hiro.



Come detto, la storia racconta della famiglia Popple, che si trasferisce in Australia, con la speranza di impiantare una fattoria per poi trasformarla un'importante azienda agricola. Tuttavia le difficoltà sono subito numerose, anche perché i coloni non sono ben accolti dai locali, e il luogo si dimostra, si dimostra ancora primitivo.
Non potendo trasportare la casa prefabbricata che Arthur, il padre di Lucy May, si era portato dall'Inghilterra, per la mancanza di adeguati mezzi di trasporto, l'uomo è costretto a venderla e prendere una casa poco fuori città (Adelaide).





Qui Arthur, in attesa di realizzare il suo sogno, accetta di fare vari lavori, ma tutta la famiglia si impegnerà per migliorare le proprie condizioni di vita.
In attesa di tornare a scuola Lucy May e la sorella Kate esplorano questo nuovo mondo, che ai loro occhi si rivelerà meraviglioso e ricco di misteri. In particolare, la piccola protagonista, ama molto gli animali e vorrebbe occuparsi di tutte le creature che incontra nelle sue passeggiate, come koala, ornitorinchi e canguri e dopo un po' avrà il permesso di allevare un cucciolo di dingo che chiamerà Piccolo.



Il tempo passa, ma per la famiglia Popple le cose non cambiano, anzi in seguito ad un incidente sul luogo di lavoro, Arthur si ferisce ad una gamba e scivola in una profonda depressione che lo porta a diventare un alcolista. Solo grazie all'aiuto di tutti i suoi famigliari l'uomo capirà il suo errore e ritorna a lavorare.


Poco dopo però, un'altra tragedia si abbatte sui Popple; Lucy May è vittima di un incidente in cui perde la memoria. La bambina viene soccorsa da Frank Princeton, un ricco possedente terriero, che la accoglie in casa sua. La moglie di costui si affeziona molto a Lucy May in cui rivede la propria figlia morta poco tempo prima. Quando la bambina riacquista la memoria, la donna chiederà ai suoi genitori di poterla adottare, in cambio di un terreno dove poter avviare la tanto agognata fattoria. Tuttavia i Popple non accetteranno la proposta.Dopo altre vicissitudini, grazie proprio ai Princeton, Lucy May e la sua famiglia riusciranno a realizzare il proprio sogno.


L'anime descrive molto bene le difficoltà dei protagonisti e non fa nessuno sconto nel raccontare anche problematiche come l'immigrazione, l'alcolismo e la depressione dovuta ai sogni infranti.Proprio per questo Lucy May è un prodotto che risente poco, o per nulla, del tempo passato e riesce a coinvolgere un pubblico abbastanza ampio, nonostante la maggior parte delle avventure siano incentrate sulla piccola protagonista.Il character design, opera di Junichi Seki, (Vicky il Vichingo, Peline Story, Belle e Sebastien...) risulta molto curato e riesce a riportare piuttosto fedelmente quella che doveva essere la vita dei coloni di due secoli fa.

(Fonte Wikipedia)


giovedì 4 aprile 2019

Certi bambini (2004)

Quest'anno è uscito il film "La paranza dei bambini", film tratto dall'omonimo romanzo di Roberto Saviano, ma la difficile vita dei bambini e ragazzi dei quartieri poveri di Napoli, che trovano nella criminalità l'unica via d'uscita dalla miseria in cui sono costretti a vivere, è stata raccontata nel 1991 nel film "Vito e gli altri" e poi nel 2004 con questo bel "Certi bambini" dei fratelli Frazzi




Il film, basato sull’omonimo romanzo di Diego De Silva, racconta la vita disagiata, di un gruppo di ragazzini nei quartieri più poveri di Napoli, e in particolare quella dell’undicenne Rosario, le cui giornate sono in perenne bilico tra le amorevoli cure per la nonna malata, il volontariato all’oratorio e le rapine, i furti, e pericolose “roulette russe” sulla tangenziale, compiute con gli amici.
Andrea e Antonio Frazzi ci mostrano uno spaccato di realtà, che se anche noto, viene spesso dimenticato, o nascosto sotto al tappeto, realtà che vede coinvolti tanti bambini, che hanno come unica maestra di vita la strada, e come solo futuro, quello della delinquenza.



La storia ci viene narrata in diversi flashback, mentre Rosario in metropolitana, si avvia verso il suo inevitabile destino. Vediamo così i ragazzini che si prostituiscono con un vecchio pedofilo, che li sfrutta anche per rapine e furti; bambini che giocano alla roulette russa, attraversando di corsa la trafficata tangenziale, undicenni che passano le loro giornate in sala giochi o al bar, a fumare sigarette e scherzare. Contemporaneamente assistiamo alla parte buona della vita di Rosario, quella in cui si prende cura della nonna, o quella delle giornate passate come volontario all’oratorio, dove il ragazzo incontra Caterina, una ragazza più grande di cui si innamora, e Santino uno dei volontari, che cerca di portare Rosario verso la buona strada, figura che si contrappone a quella di Damiano, che invece vuole fare di lui un killer per la mafia.



Il buon cuore di Rosario ci viene mostrato anche nella sequenza in cui, in cerca di una facile avventura sessuale, con i suoi amici si rivolgono ad una signora che fa prostituire le figlia, ma resosi conto che questa, è una bambina ancora più giovane di loro, preferisce desistere. Tuttavia la morte di Caterina, e la conseguente voglia di vendetta, porteranno Rosario a scegliere la strada della delinquenza.



I bambini dei fratelli Frazzi, che molto devono al film “Vito e gli altri” di  Antonio Capuano, compiono atti di delinquenza, allo stesso modo in cui si compiono quelli d’affetto, poiché non hanno la capacità di diversificarli, nessuno ha spiegato loro la differenza tra bene e male, sono cresciuti in ambiente dove tutto e ambiguo e privo di moralità, tanto che anche dopo un omicidio, si può tranquillamente giocare una partita di calcio.



Certi bambini” è un film crudo, per nulla buonista, che denuncia una tremenda realtà, che non avviene in lontane baraccopoli del Sud-America, ma qui, sotto il nostro naso, sotto l’indifferenza e l’incapacità delle autorità a fermare questa piaga.

sabato 16 febbraio 2019

La guerra dei bottoni (1962)

Impegni personali e imprevisti vari mi hanno di nuovo tenuto lontano dai miei doveri di blogger per cui prima di lasciar passare ancora più tempo senza aggiornamenti, vado di nuovo a pescare tra le vecchie recensioni.




Tra i paesi di Veltrans e Longeverne, nella campagna francese, c’è stata a lungo una forte rivalità, ma se ora gli adulti hanno imparato ad andare d’accordo tra di loro, non è così per i ragazzini, che continuano a farsi la guerra, con spade di legno, sassi e botte da orbi. Quando una delle due bande riesce a fare un prigioniero, lo priva di bottoni, fibbie, cinture e lacci delle scarpe, costringendo il malcapitato a tornare a casa, reggendo i pantaloni con le mani e dunque a subire il rimprovero dei genitori oltre ad un’imbarazzante umiliazione.


Robert, il capo dei caimani , per evitare le punizioni paterne, che inoltre lo minaccia di mandarlo in collegio, si inventa di combattere nudi, ma con l’arrivo dei primi freddi questa tattica diventa improponibile. Il gruppo pensa così di comprare bottoni e cinghie, che assieme al bottino di guerra, verrà usato per ricucire i vestiti danneggiati. Un traditore però avverte Zazzera, capo dei falchi, su dove si nasconda il nascondiglio segreto, vanificando così il lavoro dei compagni. Il finale vede Robert arrivare al collegio, dove incontra Zazzera, anche lui spedito li dai genitori. I due ragazzi si scoprono così più simili di quanto avessero pensato e diventano subito amici.



Sulla falsa riga dei “I ragazzi della via Pal”, Yves Robert, mette in scena questa commedia vivace e spigliata, tratta dal romanzo omonimo di Louis Pergaud, più volte portato sul grande schermo, anche se questa rimane quella più conosciuta e riuscita. Seppur metafora del mondo degli adulti (e in particolare sulla guerra) e su come questo viene percepito dai più piccoli, la battaglia tra le due fazioni non ha nulla di veramente aggressivo, anche se combattuta con armi potenzialmente pericolose come spade di legno o sassi, ma ha più un valore ludico, un gioco ad imitare gli adulti che si fanno (realmente) la guerra.



Tuttavia in questo conflitto, i bambini si dimostrano, ancora una volta, più sensibili dei grandi, come nella scena in cui decidono una temporanea tregua per soccorrere assieme un coniglio ferito. La stessa sensibilità si nota nei discorsi che i ragazzini fanno nell’organizzarsi per lo scontro, che con serietà parlano di ricchezza e povertà, repubblica e monarchia,  uguaglianza e ingiustizia, argomenti difficili e delicati, ma che loro affrontano con ingenua autorevolezza.



Gli adulti, in questo film, sono personaggi di contorno, portatori unicamente di una morale punitiva, dimenticandosi probabilmente, di essere stati ragazzini a loro volta e soprattutto che la rivalità tra le due bande è dovuta a loro.
Yves Robert dirige un film dinamico e divertente, privo o quasi di tempi morti, che ancora oggi si fa vedere con piacere. Bravissimi i giovani protagonisti, simpatici e genuini nella loro naturalezza.

lunedì 12 novembre 2018

I cartoni dimenticati (2) - Nello e Patrasche


Quando si parla di cartoni animati tristi quasi tutti tirano fuori i soliti tioli: "Le avventure di Remì", "Anna dai capelli rossi", "Peline Story" e così via, ma a differenza di quello che andrò ora a raccontarvi, questi anime sembrano un carnevale brasiliano, poiché hanno tutti, bene o male, almeno un happy end, cosa che il seguente cartone non ha.



"Nello e Patrasche" è un anime del 1992, prodotto dalla Tokyo Movie Shinsha, basata sul romanzo "Il cane delle Fiandre" di Maria Louise Ramé, in arte Ouida.
La storia è ambientata nelle Fiandre, in Belgio, nei pressi di Anversa alla fine dell'800 e racconta le vicende del piccolo Nello, che orfano di entrambi i genitori, vive con il nonno con il quale si guadagna da vivere vendendo latte. Un giorno, il bambino, trova lungo la strada un cane delle Fiandre ferito, che dopo aver curato, chiamerà Patrasche. Il cane si dimostra subito affettuoso e riconoscente nei confronti del suo nuovo padroncino e da quel momento lo aiuterà nel trasporto del latte dalla casa del nonno alla città.



Dotato di un grande talento per il disegno e la pittura, Nello desidererebbe vedere l'opera di Rubens, per il quale il ragazzo prova grande ammirazione, esposta nella chiesa in città, ma visitabile solo a pagamento.
Nello ripone quasi tutte le speranze per una vita migliore in una gara di disegno ad Anversa, ma la giuria decreta un altro vincitore, sicuramente meno meritevole, ma figlio di un personaggio importante della città. Poco dopo muore il nonno del bambino, che affranto e senza più una casa, vagherà nella gelida notte invernale in cerca di un rifugio, che troverà proprio nella chiesa in cui sono esposte le opere di Rubes (La discesa dalla Croce e L'erezione della Croce). Felice per aver esaudito il suo desiderio, Nello morirà assieme al suo cane, a causa del grande freddo e verranno ritrovati, solo il mattino seguente, abbracciati.



L'anime è stato trasmesso per la prima volta in Italia nel 1994 su Telemontecarlo, in seguito riproposta sullo stesso canale, all'interno del programma "Zap Zap" e poi ritrasmessa con un nuovo doppiaggio da Rai 2 nel 2006 con il titolo "Il mio amico Patrasche"
Questa versione animata del romanzo (ne esiste una precedente del 1975, prodotta dalla Nippon Animation, dal titolo "Il fedele Patrash" e trasmessa in Italia nel 1984) è caratterizzata da disegni curati (i character design sono di Junichi Seki e Satoshi Hirayama) e ricchi di dettagli che ben rendono l'ambientazione fiamminga di fine ottocento e alcune sequenze sembrano quasi dei veri e proprio quadri d'autore.




Io l'ho visto la prima volta diversi anni fa e a conquistarmi furono inizialmente, proprio i bellissimi disegni e poi un po' alla volta mi sono fatto prendere anche dalla storia.
All'inizio della storia il nonno non vuole che Nello coltivi la sua passione per il disegno perché ritiene che proprio a causa di tal passione, il padre del bambino, marito di sua figlia non si sia curato molto della famiglia, portando appunto alla morte sua e della donna. Nello naturalmente continuerà a disegnare e solamente quando il nonno si renderà conto del vero talento del ragazzo non tenterà più di ostacolarlo.



Nel corso della storia, Nello incontrerà mille difficoltà e sarà vittime della cattiveria di molta gente che incontra, soprattutto da parte di adulti, cosa tipica di romanzi di fine ottocento, ma come dicevo all'inizio, a differenze di molti di altri, in questo caso, non c'è happy end; infatti anche il protagonista troverà la morte, che probabilmente si sarà liberato di tante sofferenze e avrà, per lo meno, realizzato il sogno di vedere i quadri che tanto desiderava vedere, ma sicuramente non si può parlare di motivazioni consolatorie per un finale così drammatico. Ricordo che quando lo vidi la prima volta ci rimasi molto male, sperando che magari fosse solo un sogno o una morte apparente, ma così non fu.


Ad ogni modo lo considero un anime molto bello, adatto soprattutto a chi ama le storie drammatiche e con disegni semplicemente splendidi, dunque armatevi di una scatola o due di kleenex e dagli una possibilità.

lunedì 16 ottobre 2017

Il signore delle mosche (romanzo + film 1963)


Come per “Stand by me”, anche per “Il signore delle mosche”, è difficile tenere separata l’opera letteraria, dal film al quale si ispira perché il regista fa un ottimo lavoro e riesce a mantenere intatti i significati di cui William Golding impernia il romanzo.
La storia è quella di un gruppo di ragazzini, che in fuga dalla guerra, precipitano con il loro aereo nei pressi di un’isola deserta. Da quel momento i piccoli naufraghi tenteranno di sopravvivere in un ambiente ostile fino all’arrivo dei soccorsi, ma se inizialmente le cose sembrano funzionare bene, in seguito il gruppo si spaccherà in due e ben presto le ostilità tra le due fazioni, porterà a scontri sempre più cruenti e solo l’arrivo dei soccorsi, fermerà quello che ormai era un gioco al massacro.



Golding è convinto che l’uomo sia cattivo per natura (sua la frase  “L’uomo produce il male come le api producono il miele”), così la sua opera, e di conseguenza anche il film, è impregnata di questo suo pessimismo e  a rendere la storia ancora più disturbante e spaventosa, è il fatto che i protagonisti siano bambini.
I giovani protagonisti, privi di figure adulte, tentano di costruire una società ideale e migliore rispetto a quella in cui vivono, ma proprio la mancanza di linee guida che insegnino la differenza tra bene e male, tra giusto e sbagliato, farà si che questa società si spacchi presto, facendo regredire i ragazzi ad uno stato selvaggio che li porta a sviluppare i loro istinti animaleschi, in cui prevale la legge della giungla a discapito del senso di colpa, del senso del peccato e dell’educazione.



Come già detto, a rendere ancora più greve la vicenda, è il fatto che a compiere queste efferatezze non siano adulti inevitabilmente guastati dal tempo e dalla società, ma bambini e ragazzi, simboli di innocenza e purezza per definizione. Ralph è il protagonista “buono”, quello dotato di maggior buon senso e intenzionato a costruire una società civile, basata su regole precise, in cui ognuno ha il suo compito e la sua preoccupazione maggiore è quella di mantenere sempre acceso il fuoco che permettere di essere avvistati da possibili soccorritori.
L’antitesi di Ralph è Jack, istintivo e irrazionale, vorrebbe essere lui il vero leader del gruppo e per riuscirci non rinuncia a usare la violenza. Per dimostrare la sua virilità e superiorità organizza un gruppo di cacciatori e affascina gli altri ragazzi con storie e canti di guerra. Per conquistare la leadership punta sulle paure più irrazionali e forti, quelle del buio e di possibili creature mostruose, anteponendole a quelle meno viscerali, cioè a quella di rimanere li per sempre, senza che nessuno li avvisti mai.



C’è poi Bombolo (Piggy nel romanzo), di cui non conosciamo il vero nome e che è uno dei pochi che rimane sempre fedele a Ralph. Il ragazzino, grassottello e asmatico, e rappresenta la razionalità e quel poco che ne resta nei bambini che li lega alla civiltà, ma è allo stesso tempo l'anello debole della catena, quello che nessuno ascolta e potenziale vittima sacrificale. Simon invece è un bambino timido e insicuro, anche lui legato a Ralph, fugge però dal gruppo e sarò il primo a scoprire che la bestia non esiste, cosa che purtroppo non potrà raccontare, perché ucciso prima. La sua epilessia lo porta a frequenti svenimenti e visioni e in uno di questi attacchi si ritroverò a parlare con “Il Signore delle mosche”.  Nell’iconografia della storia, Simon rappresenta la spiritualità, la volontà dell'uomo di fare del bene, ma l'incapacità di metterlo in atto, e la sua morte segna la perdita della verità e dell’innocenza.



Vi è infine Roger, alleato di Jack, che rappresenta il vero lato malvagio della natura umana, cattivo per il piacere di esserlo, inizialmente frenato dalla sua educazione, una volta che il gruppo si è spaccato, lui libera tutta la sua crudeltà, arrivando perfino ad uccidere. “Il Signore delle mosche” però, non è soltanto una metafora sulla natura perversa dell’essere umano, ma anche un chiaro esempio di come nascano i totalitarismi, più o meno violenti.
Quando prevale la paura di sopravvivenza, la società è disposta ad accettare le prepotenze e i metodi soppressivi, di un leader che punta a eliminare questa paura, ritenendolo un male minore o necessario. 


Così, in questo caso, i giovani protagonisti accettano la prepotenza e la violenza di Jack e il suo gruppo, che assicura di sconfiggere il mostro, e con esso la paura ancestrale di esso, piuttosto che sobbarcarsi il sacrificio che potrebbe portarli ad un salvataggio dall’isola. Però una volta ottenuto il potere, Jack sfrutta le paure dei ragazzini per continuare a dominarli e quando infine tutto pare precipitare in un escalation di irrazionale violenza, solo l’intervento esterno di alcuni militari giunti sull’isola, porta la situazione ad un nuovo equilibrio, ma con i protagonisti ormai traviati da quanto successo e consapevoli della perdita della loro innocenza e spensieratezza.
Da un punto di vista tecnico la pellicola è ben diretta, anche se la fotografia non è delle migliori.
Bravi tutti i protagonisti.

giovedì 21 settembre 2017

I 70 anni del Re: Auguri Zio Steve!

"L'essere che, sotto il letto, aspetta di afferrarmi la caviglia non è reale. Lo so. E so anche che se sto bene attento a tenere i piedi sotto le coperte, non riuscirà mai ad afferrarmi la caviglia." (da A volte ritornano)



Quello che è, forse, il mio film preferito, "Stand by me - Ricordo di un estate" è stato anche il mio primo incontro con Stephen King. In realtà la prima volta che ho visto il film, nemmeno sapevo che fosse Stephen King, cosa che scoprii solo qualche anno più tardi; nel frattempo avevo visto almeno un'altro paio di film tratti da sue opere: "L'implacabile" e "Brivido".
Il primo un fanta-action con Arnold Schwarzenegger, che poco ha a che vedere con il romanzo da cui è tratto, ma che mi divertiva molto. Tra l'altro, anche dopo essere divenuto un fan di King, per molto tempo ho ignorato che l'opera alla base del film fosse sua.
Il secondo è un filmaccio firmato dallo stesso King, ma che nonostante la bassa qualità mi piaceva e continua a piacermi un sacco.



E' stato però verso la fine della terza media che mi sono avvicinato per la prima volta ad un libro del Re; ero a casa di mio cugino e stavo curiosando tra i suoi libri quando fui attirato da un titolo: "Le notti di Salem", lo aprii e cominciai a sfogliarlo a caso. Rimasi colpito dal linguaggio moderno e dal disegno dei personaggi, soprattutto quelli più giovani, miei coetanei, così simili a quelli che eravamo i miei amici ed io, senza però l'elemento fantastico.
A quel tempo stavo leggendo qualche giallo di Agatha Christie e avevo provato ad addentrarmi nel fantasy, ma ormai il seme era stato piantato e mi ripromisi di cominciare a leggere qualcosa di King il prima possibile.



Non dovetti aspettare molto, infatti poco dopo, non ricordo se per il mio compleanno o per Natale, mi regalarono "L'ombra dello scorpione" in versione integrale. Anche in questo caso rimasi affascinato dal quello stile di scrittura, così attuale eppure non banale. Mi affezionai ai vari personaggi, tanto da arrivare a piangere (o quasi) per la morte di Nick Andros.



Qualche settimana dopo aver finito il tomo, andai in libreria con i miei genitori e tra le novità, ben esposto in modo da non passare inosservato c'era la nuova fatica del Re: "Cose Preziose", ma nonostante sia un'opera che ho amato molto, in quell'occasione fui attratto da un'altro volume, per cui decisi di rimandare la lettura de "l'ultima storia di Castlerock" e uscii dalla libreria felice tenendo in mano quello che è stato uno dei libri più belli e importanti, dal punto di vista personale, che abbia mai letto. Quella sera stessa iniziai a leggere "Stagioni diverse".



Da allora ho iniziato a leggere ogni cosa che lo Zio Steve pubblicava e nel frattempo cercavo di recuperare le sue prime opere, così durante la mia ricerca dei suoi libri, mi imbattei in un titolo "mitologico", un 'opera introvabile, ormai fuori catalogo da tempo e che ancora non è stato ripubblicata. Sto parlando di quel misterioso "Unico indizio la luna piena", che molta gente sta tutt'ora cercando e che per acquistarlo sono disposti a spendere anche centinaia di euro.
Come spesso capitava quando ero più pischello, il sabato si andava con gli amici in centro a Padova e una delle nostre tappe fisse era una fumetteria non lontana dalla stazione. Avendo anche vecchi gialli, fantasy e volumi della collana Urania, provai a chiedere anche a loro se per caso l'agognato romanzo. La risposta fu negativa, ma promisero di provare a cercarlo attraverso i loro fornitori, così ogni qual volta che mi ritrovavo a passare per quella fumetteria, entravo anche solo per sapere se ci fosse qualche novità. La cosa andò avanti per qualche anno e quando ormai mi ero arreso all'eventualità di aspettare una nuova edizione, un sabato qualunque mentre stavo facendo la spesa di Dylan Dog, la titolare mi chiamò dicendo che aveva qualcosa per me e tirò fuori il mio tesoro...Ero entusiasta e gli occhi mi si erano illuminati come Las Vegas a Natale.
Poi però pensai a quanto avrei dovuto spendere per avere un libro che aveva richiesto così tanto tempo e fatica per essere trovato, invece fui nuovamente sorpreso perché mi chiesero appena cinque euro; credo che ancora si ricordino del mio sorriso quando uscii dal negozio.



Sono passati più di trent'anni dal mio primo King e da allora altro e, a parte pochi casi, ogni volta è stato sempre un immedesimarmi con in personaggi, vivere le loro avventure, sentire le loro paure, emozionarmi per le loro vittorie...Ho visto strappare il braccio dal corpo del piccolo George Debrough e sono sceso con i "Perdenti" nelle fogne di Derry alla ricerca di un clown assassino, ho stretto la mano a Johnny Smith, sono fuggito alla vista di un San Bernardo idrofobo, ho pianto sulla tomba di Gage Creed, ho corso a perdifiato accanto a Ray Garraty, mi sono nascosto nei corridoi dell'Overlook hotel...
Insomma Stephen King è stato e continua a essere un fantastico compagno di viaggio e devo ringraziare lui se mi sono appassionato anche alla scrittura.

Avrei potuto scrivere un lungo papiro, esaminando tutte le sue opere e magari confrontarle con le relative versioni cinematografiche; avrei potuto riproporre la sua biografia, magari aggiungendo qualche chicca che solo i fan più accaniti conoscono, oppure avrei potuto cercare di scrivere un breve saggio sociologico su King e la paura, ma alla fine ho pensato che la cosa migliore, per fargli gli auguri fosse scrivere qualcosa di più personale, qualcosa per cui si capisca il legame che ho con lui.
Tanti auguri Zio Steve, magari ci si vede in giro per il Maine se prima o poi riuscirò a farci una vacanza!

mercoledì 7 dicembre 2016

...E ora parliamo di Kevin (2011)

In attesa del post sui consigli natalizi, che arriverà poco prima della vigilia, riporto un'altra vecchia recensione di un film piuttosto duro...

E ora parliamo di Kevin” è un film tosto, che colpisce duro allo stomaco e non può lasciare indifferenti, tuttavia non privo di difetti.
La bella favola che tutti i bambini sono buoni e bravi è già da un po’ che al cinema è stata chiusa in un cassetto, ma in questo film c’è, a mio avviso qualcosa di stonato, infatti si vuole raccontare le problematiche con un figlio "difficile", ma il Kevin bambino, ancor più del Kevin adolescente risulta essere troppo calcolatore per essere credibile.  Certo bisogna anche considerare che il film si basa sull’omonimo romanzo, dunque si dovrebbero capire in primis le intenzioni dell’autore. Comunque, a parte questa critica, che può essere un limite mio,  il film l'ho trovato coinvolgente e mi è piaciuto molto.



Il rapporto difficile tra Kevin e la madre si nota fin da subito, infatti la donna, una volta partorito sembra provare disaffezione per il figlio, che pur essendo ancora un neonato, probabilmente assorbe questa mancanza di affetto, riservando tutto l’odio per la madre negli anni successivi. Una delle scene più sintomatiche in questa fase, è quando lei lo culla, ma senza portarselo al petto, tenendolo distante, cosa che sicuramente il bambino ha avvertito.
Come dicevo, in seguito Kevin, riversa tutto il suo odio nei confronti della madre, che si sente sempre più frustrata, e fa di tutto per ritrovare l'amore del figlio. All'inizio forse solo perché è gelosa di come Kevin si comporta con il padre, ma alla fine gli si affeziona veramente, gli vuole bene, e il fatto che lui la sfidi continuamente la fa soffrire



Un’altra sequenza importante è quella nella quale, ribellandosi all’ennesimo gesto di sfida del bambino, Eva lo fa cadere rompendogli un braccio, e qui possiamo notare due cose: da una parte si nota la stonatura (come dicevo all’inizio) di un bambino così piccolo che racconta una bugia al padre, solo per far capire alla madre che ha lui il controllo della situazione (anche se in un flashforward le dirà che quella è l'unica cosa buona che abbia fatto per lui), dall'altra la scena risulta sintomatica per il prosieguo del film, di quale sia il vero carattere di Kevin.
Tuttavia Kevin è pur sempre un bambino e ciò si nota in particolare nel momento in cui si ammala, solo allora si abbandona alle cure di Eva, cercando addirittura le coccole e l’affetto e rifiutando quelle del padre, lasciando stupiti entrambi i genitori. Per qualche ora Kevin diventa un bambino come tutti gli altri, buono e affettuoso, probabilmente come egli stesso avrebbe voluto essere, ma appena guarito, riemerge il suo lato disturbato e continua a vessare la madre.



E’ nel finale però, che si capisce tutta la fragilità nascosta da tanta cattiveria, cattiveria che porta il ragazzo, ormai adolescente, a compiere un gesto irreparabile; solo allora madre e figlio riusciranno a riavvicinarsi, capendo che si vogliono bene, ma ognuno costretto a chiedersi se le cose avrebbero potuto andare diversamente. Mi è molto piaciuto l’uso continuo del colore rosso (i panini alla marmellata, la guerra con i pomodori, gli atti vandalici alla casa di Eva…) che il regista ha fatto, come richiamo al drammatico finale. Bravissimi tutti gli interpreti, e in particolare Tilda Swinton, su cui poggia la maggio parte del film, ma anche i vari attori che interpretano Kevin, nelle varie fasi della sua età.

venerdì 15 aprile 2016

Lasciami entrare (2008)



Difficile inquadrare in un unico genere questo piccolo gioiello della cinematografia svedese. Pur trattando di un tema horrorifico, di horror ha molto poco, se non qualche sequenza più grand-guignolesca che spaventosa. E' sicuramente un film drammatico che tocca tematiche quanto mai attuali, come quella della solitudine dovuta all'incomunicabilità (soprattutto tra adulti e giovanissimi), e alla paura del diverso. Infatti Oskar è abbandonato a se stesso, i suoi genitori sono divorziati e sembrano non accorgersi della sua sofferenza e della sua rabbia, dovuta ai soprusi di alcuni bulletti, e anche gli altri adulti sono ciechi al bisogno d'aiuto del biondo ragazzino, che immagina di accoltellare i compagni che lo vessano continuamente. Poi Oskar, conosce Eli, una ragazzina che si è trasferita da poco nel suo stesso palazzo, che sembra non temere il freddo e che vive assieme ad uomo anziano. 
Tra i due ragazzini nasce presto una tenera amicizia e un affetto profondo (qui il film si tinge di atmosfere romantiche, anche se si tratta di un amore casto e quasi infantile) e sarà proprio la nuova amica a dare ad Oskar il coraggio di affrontare i compagni di scuola che lo tormentano. In seguito Il ragazzino scoprirà che Eli non è un essere umano, ma un vampiro asessuato, che per sopravvivere ha bisogno di nutrirsi di sangue. Ma questa sua natura non spaventa lo spettatore, anzi si prova quasi pena per lei, costretta a macchiarsi di atroci delitti per sopravvivere. Particolarmente significativa la sequenza nella quale Eli chiede a Oskar di provare a identificarsi in lei, per fargli capire che non è un mostro, che sarebbe come condannare un leone o un ghepardo, perché uccidono delle indifese gazzelle; è solo bisogno di sopravvivenza. La situazione della ragazzina peggiora quando il suo "servo", ormai troppo vecchio per poterle essere utile e ancora di più per essere amato da lei, decide di suicidarsi. Un'altra scena importante è quella in cui Eli, chiede a Oskar di invitarla a entrare in casa, perché secondo la tradizione, i vampiri per entrare in una casa devono essere invitati da chi vi abita (e qui si capisce il significato del titolo), ma il ragazzino invece la stuzzica e invece di invitarla le fa segno con la mano di passare la porta, e solo quando vede che la sua amica rischia di fare una brutta fine, le da il suo permesso. Ed proprio qui, che Oskar capisce il dramma di Eli e decide di esserle comunque amico.Tutta la storia si svolge nei degradati sobborghi di Stoccalma, in paesaggi completamente imbiancanti dalla neve, che diventa la terza vera protagonista del film, con il suo biancore che copre ogni altro colore e sembra fare isolare ancora di più, i personaggi gli uni dagli altri.Le ultime immagini del film mostrano Oskar allontanarsi in treno, assieme alla sua amica, ben nascosta in uno scatolone e fanno presumere che diventerà il suo nuovo "servo" in un ciclo per lei infinito.Il film si può dunque definire un dramma-horror, sulla solitudine e sul bisogno di comunicabilità, che ormai non sembra appartenere più a questa società ed è anche una tenera storia d'amore, di due ragazzini soli e bisognosi l'uno dell'altra.


martedì 28 luglio 2015

La ragazza della porta accanto (2007)

"Io avevo tanti sogni...ora non ne ho più"

David ha dodici anni e passa le lunghe giornate estive assieme ai suoi amici, o in riva al fiume. Un giorno incontra Meg, una bella ragazza di sedici anni, che assieme alla sorella si è trasferita a casa dei suoi vicini. Le due ragazzine hanno perso i genitori in un incidente stradale e sono state affidate alle cure di Ruth Chandler, loro lontana parente e madre dei migliori amici di David. Ben presto però, la donna rivelerà tutto il suo sadismo, nei confronti delle due sorelle, prima sottoponendole ad umiliazioni e qualche percossa, per poi farle sprofondare in un inferno fatto di torture e  violenze fisiche e psicologiche, a cui parteciperanno anche i giovani figli della donna, nonché alcuni altri ragazzini del vicinato. David diviene così testimone muto di quei terribili segreti, a metà tormentato dai sensi di colpaverso Meg, ma bloccato dal timore reverenziale per Ruth.Tratto dal romanzo di Jack Ketchum, che a sua volta si basa su avvenimenti realmente accaduti, il film è uno spaccato atroce di quell’America chiusa e rurale, di cui ogni tanto sentiamo parlare per sanguinosi fatti di cronaca. “La ragazza della porta accanto”, che a differenza del romanzo non ha ancora trovato una distribuzione italiana, è un horror “vero” perché  i mostri di cui parla sono reali; non ci sono vampiri o zombies, ma esseri umani sadici e puramente cattivi. E sebbene la violenza vera e propria, non venga mai mostrata direttamente, ma per lo più suggerita, nemmeno film come “Saw” o  “Hostel”, che facevano del voyerismo la propria carta forte, riuscivano a essere altrettanto duri e crudeli. Forse perché, seppure manovrati dalla mefistofelica Ruth, a perpetrare la maggior parte delle violenze sono dei ragazzi o ragazzini, da cui non ci si aspetta tanta crudeltà.  Il film parte un po’ lento, ma quando ingrana diventa una macchina devastante, che colpisce con forza e non può lasciare indifferenti. Alcune sequenze ineffetti, sono veramente impressionanti, pur non arrivando a mostrare nulla direttamente, e probabilmente non sono adatte a cuori deboli. Credo che il regista volesse sottolineare l’ambiguità degli stati d’animo dei protagonisti, facendo si che anche lo spettatore si senta spiazzato e confuso inquanto, una cosa è ciò che è giusto fare, un’altra e quello che la paura ti concede di fare, e direi che è perfettamente riuscito nel suo intento, perché il film è assolutamente coinvolgente. Seppure con qualche ingenuità, Wilson dimostra grandi doti, muovendosi bene conla macchina da presa, soffermandosi spesso su dettagli, che però danno una visione d’insieme ancora più realistica. Come già detto, il fatto di tenere la violenza vera, nascosta allo spettatore, ma solo suggerita è un valore aggiunto, poiché non c’è mezzo forte quanto l’immaginazione, dunque è come se si stesse assistendo direttamente alle torture che la protagonista subisce. Molto bravi gli attori, in particolare Daniel Manche (David) e Blythe Auffarth (Meg) che riescono a rendere evidente il tormento che i due ragazzini vivono, con l’animo in conflitto con se stesso, combattuti tra ciò che è giusto fare e ciò che in realtà possono fare. Un film, che gli amanti del genere, non potranno non apprezzare, ma che sconsiglio  a chi è troppo sensibile.