Visualizzazione post con etichetta Lutto. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Lutto. Mostra tutti i post

mercoledì 22 luglio 2020

Ciao papà

Esattamente due mesi fa ci lasciava mio papà.
E' stato un brutto colpo, nonostante già da diversi mesi sapessimo che il decorso della malattia non avrebbe lasciato speranze. A causa del lockdown, dovuto al COVID 19, io sono rimasto bloccato a Bologna, assieme alla mia famiglia, e se ciò mi ha fatto piacere, perché non ho mai passato tanto tempo consecutivo accanto a Chiara e alle bimbe, d'altro canto non ho potuto stare vicino a mio papà negli ultimi suoi giorni di vita. 
Durante tutto quel periodo sono riuscito a tornare a casa solo un paio di volte e l'ultima lui ha sempre dormito e non credo si sia nemmeno reso conto che ero lì.
Quando, a fine febbraio, l'Italia si è bloccata, mio papà si muoveva ancora, non molto, ma ancora era in grado di arrangiarsi per i piccoli mestieri di casa, poi è andato piano, piano spegnendosi, bloccato a letto, costretto a nutrirsi con flebo, seguito soprattutto da mia zia e mio fratello.
Lui, però, non ha mai perso il buonumore che lo caratterizzava, fino a quando ha potuto essere cosciente, sorrideva e faceva sorridere la gente che veniva a trovarlo.
Il 22 maggio ha esalato il suo ultimo respiro e qualche giorno dopo c'è stato il funerale.
A me sembra ancora impossibile, sebbene fossi preparato a quanto accaduto. La casa, qui a Padova, è così vuota ora; anche se non ci parlavamo molto, soprattutto per colpa del mio carattere chiuso, ci volevamo molto bene, lo so, sembra una banalità dirlo, ma credo sia necessario, almeno per me.
Quando tornavo a casa da Bologna, lo chiamavo per dirgli che ero partito e poi la mattina dopo, di ritorno dal lavoro lo trovavo lì, che in qualche modo mi aspettava. Ora non ci sarà più nessuno ad aspettarmi qui.
Potrei stare qui a raccontare quanti e quali sacrifici abbia fatto per la sua famiglia, di quanto amasse mia mamma e i suoi figli, di quanto gli sia debitore, ma sarebbe mai abbastanza.
Posso solo sperare di portare avanti i suoi insegnamenti e di trasmetterli alle mie figlie e di essere un papà bravo, anche solo la metà di quello che è stato lui.
Ciao papà, saluta la mamma, vi voglio bene.


Sailing down behind the sun
Waiting for my prince to come
Praying for the healing rain
To restore my soul again
Just a toe rag on the run
How did I get here?
What have I done?
When will all my hopes arise?
How will I know him?
When I look in my father's eyes
My father's eyes
When I look in my father's eyes (look into my father's eyes)
My father's eyes
Then the light begins to shine
And I hear those ancient lullabies
And as I watch this seedling grow
Feel my heart start to overflow
Where do I find the words to say?
How do I teach him?
What do we play?
Bit by bit, I've realized
That's when I need them
That's when I need my father's eyes
My father's eyes
That's when I need my father's eyes (look into my father's eyes)
My father's eyes (yeah)
Then the jagged edge appears
Through the distant clouds of tears
I'm like a bridge that was washed away
My foundations were made of clay
As my soul slides down to die
How could I lose him?
What did I try?
Bit by bit, I've realized
That he was here with me
And I looked into my father's eyes
My father's eyes
I looked into my father's eyes (look into my father's eyes)
My father's eyes
My father's eyes (look into my father's eyes)
My father's eyes
I looked into my father's eyes (looked into my father's eyes)
My father's eyes
(Look into my father's eyes)
(Look into my father's eyes, yeah, yeah)

lunedì 4 febbraio 2019

La prima neve (2013)

In un periodo in cui l'immigrazione è al centro delle discussioni politiche e non, vi ripropongo una vecchia recensione di un film che affronta, a modo suo, tale problematica



Dani è arrivato dal Togo, passando per la Libia, e poi attraverso il mare, su una di quelle carrette del mare, che trasportano centinaia di profughi, in cerca di una via di fuga, e che in questi giorni riempiono le pagine di cronaca di quotidiani e telegiornali. Insieme a lui c’è la moglie incinta, che però muore una volta giunta in Italia, nel dare alla luce la piccola Fatou.
L’uomo non riesce a darsi pace per questo e vedrà negli occhi della figlia, la causa della morte di sua moglie. Anche quando viene inviato in un centro di accoglienza tra le montagne trentine, Dani continua a tormentarsi e aspetta soltanto di ricevere il foglio di via, per poter andare a vivere a Parigi, con l’idea di abbandonare la figlia, sperando che trovi una famiglia che si occupi di lei.



Nel frattempo Dani lavora per Pietro, falegname e apicoltore, che cerca di dare alcuni consigli al giovane immigrato ("Le cose che hanno lo stesso odore devono stare assieme"). Qui conosce anche Michele, nipote di Pietro, un biondo ragazzino di undici anni, dal carattere ribelle, che in realtà cela il dolore e il rimorso per la morte del padre, avvenuta durante un’escursione in montagna.
Il bambino soffre e spesso rivolge questa aggressività contro la madre, che ritiene responsabile assieme a lui, di quanto accaduto. In una delle scene più belle del film, assistiamo ad un incubo ricorrente di Michele, sperduto nel bosco così familiare, ma allo stesso tempo così estraneo.



Tra Dani e Michele nasce presto un’intima anche se pudica amicizia, dovuta inizialmente alla curiosità del diverso, di qualcosa di sconosciuto che però non è così diverso da se stessi. Infatti il dolore che i due protagonisti provano è qualcosa che li accomuna e che è destinato a legarli anche nel futuro. Un po’alla volta Dani, riscopre l’amore per la figlia e scopre di essersi affezionato a Michele, che a sua volta ha ritrovato una figura adulta di riferimento, che lo possa aiutare a superare il lutto e a diventare finalmente uomo.



Dopo “Io sono Li”, Andrea Segre torna a parlarci di immigrazione, ma in questo caso, invece di mostrare la problematica dal punto di vista sociale, l’espediente narrativo serve a rappresentare un percorso più intimo, che va a toccare corde sensibili. A differenza del suo film d’esordio, Segre inserisce il protagonista, in una comunità che lo accetta, in cui non trova ostacoli alla sua integrazione ;qui infatti sono la natura e il territorio circostante a rendere difficoltoso l’inserimento dell’elemento estraneo, che deve fare in conti con un ambiente tanto affascinate, quanto ostile.



Ed è proprio nella rappresentazione della montagna, tra i verdi boschi e le alte vette che il regista veneto, da il meglio di se, mostrando la sua formazione da documentarista. Complessivamente forse il film è leggermente meno riuscito di “Io sono Li”, ma in più ha una sensibilità poetica, che ne fa un film da ricordare.

sabato 19 gennaio 2019

Hereditary (2018)

La macchina da presa inquadra, fuori dalla finestra, una casa su un albero; poi il carrello arretra e lo sguardo ci viene portato dentro a una camera piena di diorami. Puntando su uno di questi, stavolta l'inquadratura avanza fino ad avere a pieno schermo, l'interno di una delle stanze. Dopo un istante qualcuno entra in quella stanza, che da fittizia diventa la vera scena del film.
Così inizia "Hereditary" il film di Ari Aster, al suo esordio in un lungometraggio.



La pellicola si allinea a quel nuovo filone horror, di film come "Babadook", "TheWitch" e "It Follows" in cui a spaventare non sono tanto i soliti jumpscare (anche se qualcuno non manca, ma usato con parsimonia e intelligenza), ma quanto la composizione della storia, inserita in situazioni problematiche e difficili, fino a creare momenti di tensione pura che tengono inchiodati alla poltrona. In questo caso abbiamo una famiglia che sta affrontando un lutto e che nel passato (ma forse anche nel presente) ha casi di malattie mentali. Un improvviso incidente fa precipitare le cose e quello che sembrava essere un caso di follia, dovuta al nuovo lutto, si rivela invece essere qualcosa di molto più oscuro.



Ari Aster, costruisce la storia come la protagonista, una bravissima Toni Collette, costruisce i suoi diorami, cioè con una gran cura dei dettagli e dei particolari, senza lasciare nulla al caso, ma anzi giocando con lo spettatore, regalando indizi sparsi qui e la, che poi ritornano nei momenti clou.
Il film è dunque diviso in due parti ben distinte; la prima più lenta e d'attesa in cui tutto è in funzione dell'accumulo della tensione; la seconda in cui finalmente escono il sovrannaturale e i momenti di paura più vera.
E' però nella prima parte, dopo circa trentacinque minuti, che c'è la scena più inquietante e terribile, che da sola vale la visione del film. Non starò a fare spoiler per non rovinarvi la sorpresa, ma per farvi capire posso dirvi che dopo il terribile incidente di cui parlavo sopra, c'è un sequenza con l'inquadratura di un volto e delle voci nello sfondo. Noi sappiamo quello che sta per succedere, ma non i protagonisti, così la tensione sale al massimo e rendendo la scena una delle più disturbanti che io ricordi.



Alla sua uscita il film, come accade per ogni nuovo horror, è stato accostato a più celebri pellicole del passato e se quello con "L'esorcista" è un paragone ormai stra-abusato e quasi sempre fuori luogo, il confronto con "Rosemary's baby" è abbastanza appropriato, sia per quanto riguarda la tematica della vicenda, sia per come questa viene messa in scena; a cambiare è il finale, molto ben riuscito nell'opera di Polanski, mentre qui è un po' troppo affrettato, con uno spiegone conclusivo, che anziché chiarire il tutto, contribuisce a renderlo ancora più confuso.




Molto bene tutto il cast, dalla già citata Toni Collette, a Gabriel Byrne, in un ruolo che richiedeva più passività che istrionismo, passando per i due giovani protagonisti, Milly Shapiro e Alex Wolff, non secondi ai loro più conosciuti colleghi.
Ottimo, dunque, l'esordio di Ari Aster che ci regala un film, sicuramente non perfetto, ma costruito benissimo, e che sa fare il suo lavoro da buon horror, cioè mettere addosso una fifa blu e un forte disagio. Speriamo sia l'inizio di una carriera di successo.

venerdì 15 giugno 2018

Hesher è stato qui (2010)




TJ è un ragazzino di tredici anni, ha da poco perso la madre in un incidente stradale e ancora non riesce a farsene una ragione. Assieme al padre, depresso e dipendente da psicofarmaci, vive a casa della nonna, che cerca di riportare un po’ di serenità nella vita famigliare, ma viene continuamente snobbata e a lei non resta che assistere impotente al disgregarsi del rapporto tra padre e figlio.
TJ è arrabbiato con il padre, perché ha  mandato allo sfasciacarrozze, quel che resta dell’auto, dove la donna ha perso al vita, l’ultimo oggetto che ancora lo legava alla madre morta e come se non bastasse,  l’indolenza nella quale l’uomo è sprofondato, gli fanno perdere di vista la sofferenza del figlio.



Un giorno, mentre attraversa un cantiere in costruzione, TJ cade dalla bici e lui, per rabbia, rompe il vetro di una finestra; dalla casa, che avrebbe dovuto essere vuota, esce un giovane a torso nudo, con lunghi capelli e coperto di strani tatuaggi, che lo trascina dentro l'edificio per dargli una lezione, ma l’arrivo della polizia lo distoglie dall’intento, costringendolo alla fuga. Tuttavia lo strano giovane, ritenendo TJ responsabile dell’avergli fatto perdere il suo rifugio, comincia a seguirlo ovunque e a tormentarlo, mettendolo anche nei guai con un bullo della scuola. Infine si insinua fin dentro casa del ragazzino, spacciandosi per un suo amico.



TJ non dice nulla spaventato dall’atteggiamento aggressivo del ragazzo, mentre suo padre Paul, finge di credere a quel bizzarro personaggio, troppo abulico e apatico, per reagire, e l’unica a prendere in simpatia Hesher, così si fa chiamare il giovane, è la nonna.
L’arrivo di Hesher ha l’effetto di una bomba, nell’ambiente famigliare di TJ, che si trova sempre più spesso nei guai, sia con il bullo della scuola, sia con la polizia.



Inoltre il ragazzino fa la conoscenza di una simpatica, ma insicura commessa, interpretata da una quasi irriconoscibile Natalie Portman, di cui si innamora, pur non riuscendo a confessarglielo. Quando, dopo la morte della nonna, le cose sembrano peggiorare ancora di più, sarà proprio Hesher, con i suoi modi grevi e volgari, con le sue metafore sporche e il suo fare anticonvenzionale, ad aprire gli occhi a padre e figlio, ristabilendo così la serenità famigliare.



A interpretare Hesher, vero punto di forza del film, nonostante il film racconti principalmente le vicende della famiglia di TJ, è Joseph Gordon-Levitt, a cui il personaggio sembra cucito addosso. Tuttavia, la caratterizzazione di Hesher è così marcata, che finisce per annullare tutti gli altri personaggi, a eccezione forse, quella del piccolo TJ. Infatti tutti gli altri personaggi sono quasi senza spessore a partire Paul, ma anche Nicole, la timida commessa ha un ruolo di quasi nessuna importanza e che incide nel film solo in minima parte.



Se l’intro del film è fulminante e accattivante, il finale è forse un po’ troppo affrettato e poco incisivo. In ogni caso la pellicola rimane una buona opera prima, con diversi punti interessanti e qualche caduta di stile. Come già detto ottima l’interpretazione di Joseph Gordon-Levitt, che dice di essersi ispirato a Cliff Burton, ex bassista dei Metallica, per caratterizzare Hesher, ma altrettanto buona quella di Devin Brochu, che conferisce al suo TJ, la giusta rabbia e frustrazione.

mercoledì 2 maggio 2018

La mia vita a quattro zampe (1985)

Ripesco, ancora una volta, una vecchia recensione in attesa di qualcosa di nuovo appena avrò un po' più di tempo...



Svezia, fine anni 50. Ingem
ar vive con la madre e il fratello maggiore in un piccolo centro, mentre il padre è lontano per motivi di lavoro. Giochi, risate e qualche sgridata caratterizzano le giornate del bambino, fino a quando la madre si ammala di tubercolosi. Il bambino deve dunque trasferirsi a casa di uno zio, a nord, abbandonando anche Sikkar, il suo amato cagnolino.


Qui incontrerà molti strani personaggi: un vecchio malato che si fa leggere dal ragazzo cataloghi di biancheria intima per signora; un altro strampalato signore che passa tutto il tempo ad rattoppare il suo tetto, Berit, la bella del paese, che posando nuda per un eccentrico artista, si fa accompagnare dallo stesso Ingemar per evitare eventuali pettegolezzi e che, una volta, il ragazzino spierà dal lucernario dello studio, finendo però per sfondarlo e piombando quasi addosso alla donna. C'è poi Saga, una ragazzina con atteggiamenti da maschio, bravissima nel calcio e nella boxe. In mezzo a tutti questi personaggi, Ingemar se la caverà grazie alla sua filosofia: "...poteva andare peggio". Uno dei suoi esempi preferiti riguardo a questa filosofia è quello della cagnetta Laika, spedita nello spazio dai russi, e morta dopo poche settimane per mancanza di cibo e acqua. Questa sorte, sembra a Ingemar, molto peggiore dei suoi problemi.


Tornato a casa per l'invero, la felicità durerà poco, infatti poco dopo la madre avrà una ricaduta e morira. Il bambino si trasferisce così definitivamente a casa degli zii, con l'unica speranza di riabbracciare presto il suo adorato Sikkar. Tuttavia durante una lite, l'amica Saga, gli rivela che il cagnolino è morto da tempo, così Ingemar andrà a chiudersi nella "casa dei giochi" costruita dallo zio, dove passerà tutta la notte, piangendo e dando sfogo a tutto il dolore per la perdita della madre, che aveva fin'ora tenuto represso, ripetendosi che avrebbe dovuto parlarle di più. Ne uscirà il mattino dopo rafforzato e pronto ad affrontare l'età adulta.


Hallstrom, fa tesoro della lezione imparata da Truffaut (I 400 colpi) e racconta con delicatezza una fase cruciale della vita di ogni persona, infatti qui Ingemar ricorda il suo passaggio dall'adolescenza all'età adulta, dalla suo prospettiva "a quattro zampe" alla coscienza dei fatti della vita. Come quasi tutti i più bei film sull'adolescenza, dal già citato "I 400 colpi" ad "Arrivederci ragazzi" di Louis Malle, ma anche a "Stand by me" di Rob Reiner, anche il film del regista svedese punta sui due elementi fondamentali "ricordo" e "passaggio". Ed è forse qui che si differenziano i film sui ragazzi, dai film per ragazzi. Il film di Hallstrom è infatti un film per adulti, è il ricordo di un ragazzino di dodici anni che scopre all'improvviso di avere un passato e con esso fa conti, lasciandoselo, infine, alle spalle.


Lo sguardo con cui affronta questo cambiamento è all'inizio uno sguardo straniato, esterno quasi fosse quello del suo cane. E in questa visione a "quattro zampe" il mondo pare strano e folle, come i personaggi che lo popolano, ma una volta che riuscirà ad affrontare il suo passato, darà un significato anche alla morte di sua madre, e allora inizierà a "fare i confronti", enumerando così le più strane ingiustizie di cui è a conoscenza e al cui confronto, la morte della madre appare ridimensionata. Ed ecco che "trovando la giusta distanza dalle cose", trova anche il suo spazio nel mondo degli adulti.

giovedì 16 novembre 2017

Kauwboy (2012)



Jojo ha dieci anni e vive solo con il padre, un uomo duro e severo, che affoga i propri problemi e dispiaceri nell’alcool, arrivando talvolta a essere violento con il figlio, mentre la madre del bambino, una cantante country di successo, pare essere in tour in America. Jojo si trova così a essere spesso da solo ad affrontare le problematiche di un ragazzino della sua età, ma anche ad avere responsabilità che non gli competerebbero: di giorno va a scuola e gioca a pallanuoto, la sera si occupa della casa e se ne va a letto da solo, poiché il padre lavora di notte.
 Qualche volta il bambino telefona alla madre, raccontandole le sue giornate, e spesso mentendo sul rapporto con suo padre.



Le cose cambiano quando, giocando in un campo, Jojo trova un piccolo di taccola (uccello della famiglia dei corvidi) caduto dal nido, e ferito e decide di prendersene cura portandolo a casa con se; tuttavia deve fare attenzione perché suo padre non vuole animali in casa. Ben presto Jojo trova nel piccolo corvo, che lui ha chiamato Kauw, il conforto e l’affetto che il padre non riesce a dargli e ne parla anche con la mamma, nelle sue lunghe telefonate, dicendole che quando fosse tornata, avrebbe trovato una bella sorpresa.  Tuttavia, quando l’uomo scopre il segreto del figlio, lo costringe a liberarsi dell’animale, causando anche la rabbia e la frustrazione del bambino, che di nascosto continua a occuparsi del piccolo amico.





Purtroppo, questo precario equilibrio, viene spezzato dalla presa di coscienza, da parte di Jojo della morte della madre, che fino a quel momento si era rifiutato di accettare. In tal senso, è particolarmente forte la sequenza in cui il bambino vuole festeggiare a tutti i costi il compleanno della mamma e quando il padre lo obbliga a togliere gli striscioni e le bandierine a stelle e strisce, lui si ostina a cantare “Happy Birthday” alla madre assente, con tutta la rabbia che ha in corpo, sputando le parole in faccia al padre. 
Ed è solo dopo l’ennesimo litigio, che padre e figlio riusciranno a ritrovarsi e assieme ad affrontare il dolore per la perdita di una moglie e di una madre.




L’amicizia tra bambini e animali è stata spesso al centro di pellicole cinematografiche, ma non sempre il risultato è stato pari alle intenzioni iniziali.

Un film simile a “Kauwboy” è “Kes” di Ken Loach, che racconta sempre l’amicizia tra un ragazzino e un uccello, ma se nel film del regista britannico, la tematica si incentrava soprattutto sul disagio sociale, e sulla ricerca di un posto all’interno della società stessa, nel caso del film di Boudewijn Koole, il soggetto è più intimista e delicato, infatti il regista racconta con garbo e sensibilità la difficile fase dell’elaborazione del lutto, vissuta dalla parte di un bambino, che proprio per la giovane età, fatica maggiormente ad accettare la morte di un caro.
Nel film, il lutto viene svelato lentamente, anche se fin dall’inizio è intuibile che ci sia qualcosa che non va, e allo stesso modo che nella vita vera, prima di accettare la perdita, prima bisogna passare attraverso le fasi della negazione e della rabbia.



Tuttavia Koole, riesce a non cadere mai nel banale o nella facile trappola della pietà dipingendo un quadro ruvido e denso di sofferenza, ma capace anche di abbandonarsi alla fantasia, proprio come farebbe un bambino che si crea un mondo ideale nel quale rifugiarsi, per fuggire alle cattiverie della vita. E il piccolo corvo inizialmente rappresentazione dell’affetto sostituito, diventa alla fine il simbolo della presa di coscienza del lutto, ma anche della fine dell’infanzia di Jojo, che si avvia a diventare adolescente. Bravissimo il piccolo protagonista, che riesce a conferire intensità al suo personaggio, creando quella giusta empatia che non sfocia nel patetismo.