Questo è un altro racconto caduto nel dimenticatoio ripescato da una vecchia mail, è un lavoro diverso rispetto ai miei soliti racconti, non ricordo se fosse un esercizio di stile o qualcosa fatto per un concorso tematico, ma la cosa che più incredibile è che sembra descrivere abbastanza fedelmente mia moglie, ma è stato scritto almeno tre anni prima di conoscerla e cinque o sei, prima che iniziasse la nostra relazione.
Devo ammettere che al tempo e ciò si noterà nel racconto stesso, ero un po' prevenuto nei confronti delle persone con qualche chilo in più addosso, ma nel frattempo, non solo ho avuto modo di ricredermi, ma mi sono profondamente innamorato di una di loro.
Chiara si fermò davanti allo specchio nell’entrata di casa. Si sistemò i capelli biondi ricordando quando da ragazzina portava i capelli lunghi e che le piaceva attorcigliarci attorno un dito, vizio che le era rimasto anche ora che li aveva corti, perché non aveva più la pazienza di curarli con l’attenzione che richiedono le lunghe pettinature. Sul viso rotondo costellato da efelidi, dovute alla sua carnagione chiara, che al sole, anziché assumere un colore ambrato, arrossiva fino a darle l’aspetto di un grossa fragola, non c’era traccia di cosmetici. Non amava molto passare le ore tra rossetti, rimmel e phard, si truccava quel tanto che bastava per mascherare le fatiche di una lunga giornata.
In cucina, i suoi genitori e i suoi fratelli stavano cenando. Lei passò a salutarli senza dimenticarsi di Rudy, il suo amato bassotto, al quale ultimamente aveva dedicato più tempo che al suo ragazzo.
Dopo un’ultima occhiata allo specchio uscì rapidamente di casa. Come detto, Chiara, non era una ragazza vanitosa, del resto il suo fisico robusto non le permetteva di esserlo, ma come alla maggior parte delle donne, quando usciva di casa, piaceva essere in ordine. Una t-shirt scura e un paio di jeans erano l’ideale per una serata in compagnia dei suoi amici; semplicità e comodità, come piaceva a lei. Quella sera riuscì a convincere i suoi amici ad andare a mangiare al ristorante cinese, per il quale aveva una vera passione. Probabilmente questa predilezione era nata nell’adolescenza, quando credeva erroneamente, che la cucina cinese fosse tutta ipocalorica. Poi scoprì che c’erano anche diversi piatti fritti e moltissime salse che erano tutt’altro che dietetiche.
Arrivò all’appuntamento in orario, come da sua abitudine. Non era il tipo da arrivare addirittura in anticipo, ma odiava abbastanza i ritardi, per essere sempre puntuale.
Durante la cena chiacchierarono del più e del meno, senza scendere in discorsi particolarmente impegnativi. Chiara era così, simpatica, divertente e molto sensibile, ma non le piaceva parlare di se stessa e dei suoi problemi con persone con le quali aveva poca confidenza e, anche se quella sera era in compagnia dei suoi amici, non con tutti si sentiva libera di confidare le sue preoccupazioni. Se aveva bisogno di sfogarsi, di solito lo faceva con il suo ragazzo, ma anche lui non aveva accesso ai segreti più intimi che Chiara conservava gelosamente.
Gli amici però si fecero una grossa risata quando Chiara raccontò loro di un incubo che la tormentava da qualche tempo a quella parte, e cioè quello in cui veniva inseguita da una statua di Boccioni. Tale incubo derivava dall’inconsueta paura, che Chiara aveva, di rimanere rinchiusa all’interno di un museo senza la possibilità di uscire. Ancora di più la spaventavano i musei di arte moderna, con tutte quelle sculture e dipinti dalle forme astruse e minacciose.
Dopo cena, tutti assieme andarono al cinema. Questa non era una vera passione, ma a Chiara piaceva andare al cinema, in compagnia degli amici o del moroso e poi discutere del film appena visto. Videro un film romantico e Chiara si commosse, ricordando quel ragazzo che le aveva spezzato il cuore. Ma ora aveva una persona che la amava e lei era felice.
Più tardi, mentre si infilava a letto, nella sua camera, le cui pareti erano coperte dalle numerose cartoline che aveva raccolto in giro per il mondo, e sul cui pavimento risaltava anacronisticamente una cassetta di mele che aveva portato a casa dal Trentino soltanto qualche giorno prima, Chiara ripensò a tutto ciò e sorrise. Era circondata da persone che le volevano bene, aveva viaggiato molto e fatto esperienze che la maggior parte della gente che conosceva, mai avrebbe fatto. C’era solo una cosa che ogni tanto tornava a disturbarla, ed era il pensiero del suo fisico abbondante; ormai aveva imparato ad amare il suo corpo e quasi non faceva più caso agli sguardi e alle risate che qualche idiota ancora le rivolgeva, ma ogni tanto, come quando era bambina, sognava di essere una farfalla.
venerdì 14 aprile 2023
Chiara (racconto)
martedì 4 aprile 2023
La corsa (racconto)
Scartabellando alcune vecchie mail ho trovato dei vecchi racconti che ancora non avevo pubblicato: ecco il primo di essi, chiaramente ispirato da "La lunga marcia" di Stephen King sotto lo pseudonimo Richard Bachman.
Spero possa piacervi.
Salvatore continuava a correre anche se ora il suo passo era incerto e caracollante; ormai la meta era vicina e soltanto grazie all’istinto di sopravvivenza era riuscito a proseguire, dopo che i suoi compagni erano tutti caduti, uno dopo l’altro, durante il massacrante percorso. Erano partiti circa tre settimane prima da Sitka, in Alaska e dopo un percorso di quasi 5600 km, in cui avevano attraversato pressoché un quarto degli interi Stati Uniti, ora stava per giungere, da solo, a Key West, nell’assolata Florida.
La micidiale corsa era stata organizzata dal direttore di un grande penitenziario, con il benestare del governo e del Presidente, a causa dell’enorme sovraffollamento della prigione. Al momento della gara si contavano quasi cinquantamila detenuti, contro i trentamila che la struttura poteva normalmente contenere. Le insurrezioni erano ormai all’ordine del giorno ed era sempre più difficile tenerle sotto controllo, motivo per cui il direttore aveva pensato ad un sistema per liberarsi della maggior parte dei prigionieri, in maniera “più o meno” legale. Aveva dunque organizzato questa folle corsa, assicurando immediata libertà a chiunque fosse riuscito ad arrivare sano e salvo al traguardo, ma naturalmente si era anche preoccupato che a fine gara, arrivasse meno gente possibile. I detenuti che avessero deciso di partecipare dovevano seguire un percorso obbligato, controllati costantemente da militari armati; ogni tentativo di fuga sarebbe stato punito con la fucilazione immediata. In ogni caso, a tutti i carcerati venne installato un microchip, così se anche qualcuno fosse riuscito a eludere la sorveglianza, sarebbe stato immediatamente rintracciato e giustiziato. Inoltre, come rifornimento, erano elargiti solamente mezzo litro d’acqua e una tavoletta di cioccolato al giorno; ma la cosa più devastante era che veniva concesso solamente un’ora di riposo, ogni ventiquattro di corsa. Non ci si poteva fermare, non ci si poteva ritirare, non era permesso ostacolare gli altri concorrenti, ogni trasgressione alle regole veniva punita con una tempestiva esecuzione; la sola cosa che si potesse fare era correre e resistere, fino alla fine.
Sui cinquantamila detenuti, ben quarantamila avevano deciso di partecipare alla massacrante corsa; dopo tutto la maggior parte di loro avrebbe dovuto farsi almeno trent’anni di galera, e la prospettiva di ottenere la grazia era più allettante rispetto alla consapevolezza dell’enorme fatica che li aspettava per ottenerla. Dopo il primo giorno, le guardie di scorta fucilarono circa duemila carcerati, la maggior parte dei quali perché aveva tentato di fuggire, altri perché erano crollati o si erano arresi. Il giorno seguente, a venire uccisi furono altri cinquemila detenuti e altri settemila il terzo giorno. Poi, anche a causa delle morti dovute alla fatica e alle imprudenze, i corridori cominciarono a capire che ci voleva una strategia, non era sufficiente correre e basta e per quanto possibile, dovevano spalleggiarsi e aiutarsi a vicenda. Dopo queste riflessioni, per diversi giorni, il numerò di decessi calò vertiginosamente: appena un migliaio in quattro giorni. Tuttavia questa situazione non durò molto, le rivalità e le tensioni all’interno del gruppo erano troppo forti; ognuno voleva prevalere sull’altro, così dopo due settimane dall’inizio della mega maratona (così era stata soprannominata dai media che seguivano la vicenda con macabro voyerismo), si contavano quasi trentamila morti e all’ultimo giorno di gara i sopravvissuti erano non più di cinquecento.
Salvatore stava scontando una pena di vent’anni per aver ucciso un tizio in una lite nel parcheggio di una discoteca. Lui non era tipo da invischiarsi in quel tipo di cose, ma odiava farsi mettere i piedi in testa, e quando quel ragazzo, che avrà pesato più di un quintale, aveva cominciato a provocarlo in pista da ballo, non si era tirato indietro. Sapeva che molto probabilmente avrebbe avuto la peggio, ma a lui interessava dimostrare che nessuno poteva permettersi di prendersi gioco di lui, solo perché non era grande e grosso.
Poi però le cose erano andate diversamente da come se l’era immaginate ed era bastato un pugno alla gola per far si che il ragazzo morisse soffocato. Da quel giorno erano passati già cinque anni e durante tutto quel periodo, in carcere aveva subito ogni genere di abuso, fisico, sessuale e psicologico e quando aveva deciso di farla finita gli si era presentata l’occasione della corsa, così non se l’era fatta sfuggire. Ora, all’ultimo giorno di gara, era rimasto tra i pochi sopravvissuti, ma si sentiva sempre più esausto e temeva che sarebbe crollato proprio ora che stava per raggiungere il traguardo. Quell’estenuante prova lo aveva ridotto a essere l’ombra di se stesso, come se non fosse stato già abbastanza magro; le gambe, che ormai si muovevano da sole, lo reggevano per miracolo, ed era consapevole che se si fosse fermato a riposare un’altra volta, non sarebbe più riuscito a mettersi in piedi, per cui continuò ad arrancare faticosamente nonostante non dormisse ormai da più quasi tre giorni.
Davanti a lui, un giovane asiatico si bloccò improvvisamente in mezzo al percorso e si sedette a terra; non fece nemmeno in tempo a superarlo che una guardia lo raggiunse e gli sparò alla testa. Salvatore passò oltre indifferente; qualche giorno prima probabilmente si sarebbe perlomeno chiesto chi era quel ragazzo, se lo conosceva, se durante le detenzione aveva avuto modo di parlarci o di farci amicizia, ma in questo momento, nulla di tutto ciò aveva importanza, l’unica cosa che contava era arrivare alla fine. Improvvisamente, il suo sguardo perso si fece lucido, c’era qualcosa di diverso in fondo alla strada; la gente che fino a quel punto aveva seguito la maratona, era sempre rimasta diligentemente a bordo strada, controllata dalla polizia in modo che non interferisse con la gara, ma ora sembrava che fossero tutti ammassati, lasciando solo uno stretto corridoio, attraverso il quale sarebbe dovuto passare.
Il traguardo era vicino.
Entrò in città accolto da una folla festante che lo incitava e incoraggiava, anche se lui non era del tutto consapevole. Solo quando, oltre la piazza principale vide la linea del traguardo, come mosso da un improvvisa forza misteriosa, accelerò il passo, senza però tener conto delle sue gambe esauste.
Un crampo al polpaccio destro gli fece perdere l’equilibrio, facendolo finire a terra; ma Salvatore di tutto ciò non si rese conto, non si rese conto del suo volto che picchiava contro il pavimento in porfido, non si rese conto dell’arrivo delle guardie e non si rese conto di quell’ultimo colpo di fucile. La sola cosa che Salvatore sapeva, era che ce l’aveva fatta, aveva passato il traguardo, aveva vinto e ora era finalmente libero.
giovedì 26 settembre 2019
La creatura nel buio - Fine
Prima di proseguire con la lettura vi segnalo gli altri capitoli in caso vi mancassero:
PARTE 1, 2, 3, 4, 5, 6
Il lancinante dolore alla spalla lo riportò alla realtà e si accorse che era rimasto svenuto solo qualche secondo. La creatura lo stava ancora tenendo sollevato sopra la scrivania a pochi centimetri dalle sue fetide fauci.
Shirley raggomitolata con suo figlio tra le braccia, stava osservando quella scena impietrita dal terrore, ormai rassegnata a non sopravvivere.
Dalla ferita, il sangue scendeva copioso riversandoglisi sul petto e la fitta costante gli impediva di pensare chiaramente, eppure Edwin sapeva che doveva trovare una soluzione per uccidere il mostro e salvare Shirley e Rupert.
Improvvisamente sgranò gli occhi, ma questa volta non fu per il dolore; qualcosa gli passò per la mente, un'immagine rapida come un battito di ciglia, un ricordo sopito, l'eco di un sogno dimenticato.
La palla, doveva recuperare la palla di Joe Di Maggio. Quando Mr Dunham gliel'aveva regalata molti anni prima, prendendola in mano Ed aveva provato un formicolio al braccio e un brivido lungo la schiena e quasi era svenuto. Al tempo aveva attribuito la cosa all'emozione, ma forse quella palla aveva qualcosa di speciale, qualcosa di magico e ora si trovava sopra il caminetto del salotto.
Ed cercò lo sguardo di sua moglie dall'altro lato della stanza e senza emettere un suono le parlò; le disse quanto la amava e quanto amava il loro bambino, le disse che per lei avrebbe combattuto contro cento mostri, che avrebbe affrontato la morte stessa se fosse stato necessario, ma che in quel preciso momento aveva bisogno del suo aiuto, che doveva farsi forza e che toccava a lei a salvare la sua famiglia.
Sotto il velo di lacrime, gli occhi di Shirley si illuminarono e fece un segno d'assenso a Edwin.
Approfittando del fatto che il mostro fosse concentrato solo su suo marito, la donna afferrò la lampada a stelo accanto al lettino del bambino e usandola come un asta colpì la creatura in pieno volto.
L'essere sibilò, più per la sorpresa che per il dolore, ma tanto bastò per fargli perdere la presa su Ed, che ruzzolò pesante prima sulla scrivania e poi sul pavimento.
Quando si rialzò, Edwin vide che la creatura aveva afferrato Shirley per la gola, si guardò dunque velocemente attorno, poi raccolse un tagliacarte e avventandosi contro il mostro, glielo conficcò in un occhio, permettendo alla donna di liberarsi.
Questa volta l'urlo fu di autentico dolore misto a rabbia, ma Edwin fece in tempo a prendere suo figlio per la vita e a trascinarlo fuori dalla camera, mentre Shirley li seguiva a ruota.
"Andate, porta via Rupert di qua" le ordinò
"Ma.." cercò di obiettare lei
"Vai via!" urlò "Ora non c'è tempo..." poi con un ton un tono più rassicurante possibile aggiunse "ce la farò".
Entrambi sapevano che quella promessa era falsa; non potevano essere sicuri che lui ne sarebbe uscito vivo, ma per permettere a Rupert di salvarsi, l''unica soluzione era scappare in quel preciso istante.
Shirley prese il bambino in braccio e scese per strada voltandosi una sola volta in cerca di suo marito, sperando che lui avesse deciso di seguirla, ma Ed era già corso in salotto per recuperare la palla da baseball,un attimo prima che la creatura uscisse dalla cameretta in cerca della sua preda.
Edwin arrivò in un lampo al caminetto del salotto e afferrò la palla magica proprio quando l'essere lo raggiunse bloccandogli l'unica via d'uscita.
Ora erano solo lui e il mostro e aveva solo un tiro a disposizione per vincere la partita, altrimenti sarebbe stata la fine per tutti.
La creatura lo guardò con l'unico occhio buono che gli era rimasto, quindi gli si fece incontro con un urlo inumano.
Ed strinse la palla tra le dita e mentre caricava il tiro, portando il braccio fin dietro alla spalla dolorante, una sorta di scossa gli percorse l'intero arto e lui seppe che quello era il momento giusto.
Lasciò partire il tiro e fece strike.
La palla si conficcò nell'orbita oculare del mostro, spappolandogli il cervello e facendolo crollare a terra morto sull'istante.
Edwin si avvicinò cautamente al corpo dell'essere, ma questi non si mosse più. Tuttavia, non ancora convinto, portò il cadavere in garage per farlo a pezzi con il decespugliatore.
Una volta finito, Ed raggiunse Shirley e Rupert che vedendolo arrivare gli corsero incontro per abbracciarlo, abbandona l'aiuto portato dai vicini preoccupati.
Poi si udirono soltanto le sirene dei soccorsi che si stavano avvicinando.
giovedì 7 marzo 2019
La creatura nel buio - Sesta parte
Qui, se volete, gli altri capitoli:
PARTE 1, 2, 3, 4, 5
"Mettici più forza in quel braccio!" gli urlò Mr Dunham.
Edwin alzò lo sguardo e guardò il suo allenatore.
"Cosa sono quegli occhi lucidi?" urlò nuovamente furioso "Non voglio vedere lacrime, io voglio che i tuoi occhi sprizzino rabbia; d'accordo Edwin Crichlow?!"
"Sissignore!" rispose il ragazzo
"Bene e allora fammi vedere un lancio decente o ti sbatto fuori squadra."
Richard Stanley Dunham era l'allenatore della locale squadra giovanile da circa quattro anni e anche se non avena vinto ancora nulla era molto rispettato e temuto. Sebbene avesse quasi sessant'anni aveva una forze ed energie da vendere, così come aveva un fisico da atleta professionista.
Quando i suoi giocatori non eseguivano i suoi ordini li riprendeva con tanto di quel fervore che spesso, alcuni di questi, scoppiavano in lacrime e allora lui urlava ancora più forte. Più tardi però, prima della fine dell'allenamento, prendeva questi ragazzini in disparte, li rincuorava dando loro qualche consiglio per superare glie errori e regalandogli una bottiglia di Coca-Cola o qualche merendina.
Si parlò a lungo di quella volta che, dopo un'umiliante sconfitta, richiamò in campo i ragazzini quando questi erano già sotto la doccia e li costrinse a fare diversi giri del campo completamente nudi, mentre dagli spalti si levavano grida sarcastiche miste alle rimostranze dei genitori.
Ed si ricordò di tutto questo mentre si preparava a lanciare; sapeva che il suo allenatore era una persona eccezionale e di gran cuore, in particolare fuori dal campo, ma pretendeva sempre il massimo impegno dai suoi ragazzi, sia in allenamento che durante la partita e soprattutto non amava essere contrariato e lui non aveva certo intenzione di farlo.
Si concentrò dunque sul tiro e dopo un attimo scagliò la palla che arrivò con forza dritta nel guantone del ricevitore.
"Ottimo lancio!" urlò l'uomo
Quando però Edwin si girò sorridente verso l'allenatore, questi stava già strigliando qualcun altro.
Alla fine dell'allenamento Mr Dunham entrò nello spogliatoio guardandosi attorno con sguardo severo. Tutti i ragazzi ammutolirono temendo una nuova sgridata generale, invece lui lentamente si avvicinò a Ed, gli prese la mano e vi appoggiò sopra una vecchia palla.
"Hai un gran bel tiro, ragazzo. Continua così e forse quest'anno avremo qualche speranza di arrivare alle finali"
Dopodiché gli sorrise, scompigliandogli i capelli e se ne andò.
Dopo qualche istante di stupore, nello spogliatoio ricominciò la confusione che c'è in tutti gli spogliatoi del mondo, specialmente quando ci sono di mezzo ragazzini. Qualcuno si complimentò con Ed, mentre altri lo guardarono con un pizzico di invidia.
Lui osservò la palla che gli era stata appena regalata. C'era una firma:
JOE Di MAGGIO
Improvvisamente sentì che le gambe non lo reggevano più, la testa cominciò a girare e in un attimo tutto fu buio.
mercoledì 26 settembre 2018
La creatura nel buio - Quinta parte
Qui di seguito i link ai capitoli precedenti:
PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
TERZA PARTE
QUARTA PARTE
Si precipitarono entrambi in camera di Rupert e quello che videro fece gelare loro il sangue.
Rupert si dibatteva nel suo letto, come se colta da un attacco epilettico e urlava in preda al panico e al dolore. Il pigiama del bambino era lacerato in più punti e la sua pelle mostrava lunghi graffi.
"Che cos'ha?" chiese Shirley con voce tremante
"Non ne ho idea" mentì Edwin
All'improvviso il corpo di Rupert fu sollevato a mezz'aria da una forza invisibile dove continuò ad agitarsi e dimenarsi.
"Aiuto mamma, aiuto!"
Shirley si gettò incontro al figlio prima che Ed riuscisse a bloccarla.
"No!" gridò lui
Fu tutto inutile, lei nemmeno lo sentì. Tentò di afferrare Rupert per un braccio, ma la stessa forza invisibile che teneva prigioniero il bambino, la scaraventò a terra con forza.
Shirley si guardò attorno più stupita che spaventata, non capendo cosa fosse accaduto.
Fu allora che la creatura emerse dall'oscurità, mostrandosi in tutto il suo orrore, mentre con un artiglio teneva sollevato il piccolo Rupert pericolosamente vicino alle sue fauci.
L'apparizione di quel mostro sbloccò Edwin che fino a quel momento, in realtà non più di qualche secondo, era rimasto paralizzato dalla paura.
Non aveva mai visto niente di così orribile: la creatura era piuttosto alta con la testa grossa e allungata da cui spuntavano due piccole corna; gli occhi gelatinosi erano di un giallo spento, mentre la bocca rugosa era spalancata mostrando una lunga fila di denti affilati come rasoi e una grossa lingua squamosa che pendeva da un lato della bocca.
Mentre l'essere era distratto dall'attacco di Shirley. lui tentò di sorprenderlo afferrandolo per il collo da dietro. Inizialmente sorpresa, la creatura cominciò dibattersi, sibilando per la rabbia.
Con l'artiglio libero riuscì ad acciuffare Edwin per i capelli e a scagliarlo contro la porta socchiusa della camera.
Ed trattenne un mugugno di dolore, ma per lo meno, il suo tentativo di liberare il figlio, non rimase privo di frutti. Infatti, cercando di liberarsi del suo avversario, la creatura aveva perso la presa sul bambino che cadde svenuto sul suo lettino.
Il mostro si girò verso Edwin guardandolo con rabbia o almeno è quello che lui pensò di leggere in quegli occhi vacui.
"Vieni qua bastardo!" urlò Edwin scagliandogli addosso una sedia "E' me che vuoi...io ho un conto in sospeso con te, lascia stare mio figlio."
La creatura grugnò e nonostante la sua mole, si mosse con sorprendente rapidità verso l'uomo che lo aveva sfidato.
Shirley approfittò di quel momento per soccorre suo figlio; lo prese in braccio e se lo portò al petto, rannicchiandosi in un angolo del letto.
Vedendo il mostro avvicinarsi, Ed si tuffò dietro alla scrivania dove Rupert si sedeva qualche volta a disegnare, ma i suoi movimenti furono troppo lenti, infatti la creatura riuscì ad afferrarlo per un braccio affondandogli le unghie nella spalla.
Ed urlò di dolore e il mondo attorno a lui cominciò a farsi torbido fino a quando divenne tutto buio.
giovedì 12 aprile 2018
La creatura nel buio - Quarta parte
PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
TERZA PARTE
Ed si risvegliò nel momento in cui gli extraterrestri iniziavano il loro attacco alla Terra.
Un sogno, o meglio, il sogno di un ricordo, quel ricordo che lo aveva svegliato nel cuore della notte.
Spense il televisore e gettò il telecomando sulla poltrona.
Ora ricordava tutto; per molto tempo era riuscito a dimenticare quella terribile notte, che per tutta la sua infanzia gli aveva causato incubi spaventosi, ma poi con il passare del tempo questi erano svaniti, senza quasi lasciare traccia. Almeno apparentemente.
E se invece fosse stato veramente tutto solo un sogno? Un bruttissimo sogno partorito dalla fantasia di un bambino di sette anni, troppo scosso per poter credere alla realtà di un maniaco omicida, che preferì trasformarlo in un mostro, nel babau delle fiabe?
No, lo sapeva adesso, come lo sapeva allora; a uccidere i suoi genitori e a rapire suo fratello, non era stato un pazzo, ma un mostro reale, un essere orribile che viveva dentro all'armadio.
"Perché?" chiese Ed alla stanza buia "perché mi sono ricordato tutto oggi, dopo così tanto tempo?"
La risposta gli arrivò fulminea, trapassandogli il cervello come una pallottola e trasformandogli la schiena in un ghiacciolo.
"E' TORNATO!"
Un nuovo fulmine fece nuovamente saltare la corrente.
Edwin si alzò di scatto, perdendo l'asciugamano che aveva annodato in vita e corse rapidamente in camera sua.
Si fermò sulla porta, da lì sua moglie era poco più di un'ombra, ma il lento movimento del lenzuolo, dovuto al respiro di Shirely, lo tranquillizzò.
Si sedette sul letto e lei si girò verso di lui.
"Ciao" gli disse sottovoce
"Scusa, ti ho svegliata"
"No, non ti preoccupare ero già praticamente sveglia, ma..." si bloccò per un momento "come mai sei nudo?"
Si guardò stupito anche lui.
"Devo aver perso l'asciugamano" rispose "Non riuscivo a dormire, così ho fatto una doccia e poi ho guardato un po' di tele"
"Dai, vieni a letto" disse lei passandogli i pantaloni del pigiama
Improvvisamente, il silenzio della notte fu rotto dall'urlo più agghiacciante che i due avessero mai sentito.
martedì 30 gennaio 2018
La creatura nel buio - Terza parte
Ed si svegliò nel cuore della notte in preda all'agitazione; il suo corpo era madido di sudore, il suo respiro affannose e il battito del cuore era accelerato.
Si voltò a guardare sua moglie che dormiva tranquillamente, la coprì con il lenzuolo, poi si alzo e andò nella camera di Rupert.
Anche suo figlio dormiva pacificamente e dopo avergli accarezzato i capelli andò in bagno.
Aprì il rubinetto dell'acqua calda e si infilò sotto la doccia.
Rimase sotto l'acqua corrente per più di mezz'ora, con lo sguardo perso nel vuoto e cercando di ricordare l'incubo che lo aveva svegliato, ma più si sforzava di ricordare, meno riusciva a darsi una risposta. Eppure qualcosa gli diceva che fosse un ricordo del passato, probabilmente rimosso e che anche le paure del suo bambino ne facessero, in qualche modo, parte.
Uscì dalla doccia annodandosi un asciugamano attorno alla vita, passò una mano sullo specchio reso opaco dal vapore e fissò a lungo la sua immagine riflessa, poi andò in salotto, passando prima dal frigo dove prese una birra fredda.
La corrente era già tornata da qualche tempo, per cui, dopo essersi seduto in poltrona, accese la televisione, sperando di trovare qualcosa di abbastanza noioso che lo facesse crollare dal sonno.
Dopo aver fatto un po' di zapping, Edwin optò per un vecchio film di fantascienza in bianco e nero.
Nel film, il presidente degli Stati Uniti avvertiva la nazione che alcuni dischi volanti erano atterrati in diversi punti della Terra, ma che per ora non si conoscevano le intenzioni degli alieni, per cui per ora ci si sarebbe limitati ad un'azione di controllo. Ed sorrise mentre pensava che quell'attore gli ricordava molto suo zio Dan, poi tutto si fece buio.
"Papà?!"
Nessuna risposta
"Papà!"
Ancora silenzio.
"Mamma, papà, dove siete?"
Un lampo illuminò la cameretta di Ed, che chiamò ancora aiuto, ma le sue grida si persero nel fragore di un tuono.
Ora nella casa si sentiva anche il pianto disperato di un neonato.
Scese dal letto e andò nella camera dei suoi genitori. I piedi nudi lasciavano sul pavimento freddo delle impronte di sudore.
"Papà!?" chiamò un'altra volta Edwin e ancora una volta nessuno gli rispose.
Gli unici rumori che sentiva erano lo scrosciare della pioggia e il fratellino che piangeva.
Quando entrò in camera provò ad accendere la luce, ma la stanza rimase buia.
Ed cercò di avvicinarsi alla culla di suo fratello, quando inciampò in qualcosa e finì a terra battendo la testa contro l'armadio.
Ora il ragazzino era, se possibile, ancora più spaventato; aveva voglia di piangere, ma si fece coraggio e tentò di rialzarsi, ma il piede scivolò ancora una volta, facendolo finire nuovamente col sedere sul pavimento. Questa volta sentì qualcosa di umido e appiccicaticcio bagnargli le natiche e la mano che aveva usato per rimettersi in piedi, ma prima che potesse chiedersi cosa fosse, un lampo illuminò la stanza e se fino a quel momento aveva avuto paura, quello che vide in quell'istante quasi lo fece impazzire.
Ed aprì e chiuse più volte la bocca, come se tentasse di chiedere aiuto, ma non un riuscì a emettere alcun suono.
La scena gli si presentò solo per pochi secondi, ma era talmente nitida e terribile che lo travolse con la forza di uno tsunami. La "cosa" sulla quale era inciampato era il corpo di suo padre, in parte riverso dentro all'armadio e completamente ricoperto di sangue. Sangue che ricopriva tutta la camera; le pareti, il soffitto, il lampadario e il letto dove giaceva sua madre con il petto squarciato.
Urlò.
Finalmente il grido che gli era rimasto strozzato in gola uscì con tutta la forza dei suoi piccoli polmoni. Si gettò in lacrime sul corpo di sua madre, chiamandola per nome e sporcandosi il pigiama con il suo sangue.
Improvvisamente Edwin, si ricordò del suo fratellino, il cui pianto lo aveva attirato fino a lì e si girò per cercarlo con lo sguardo.
Ancora una volta, quella notte, il suo cervello dovette fare i conti con qualcosa di spaventoso.
Jack, suo fratello di pochi mesi, stava fluttuando a mezz'aria, volando dentro all'armadio, ma lui aveva l'impressione che in realtà venisse trascinato dentro da una mano invisibile.
Quell'ultima scioccante immagine gli fece perdere i sensi, proprio nel momento in cui la porta d'ingresso veniva sfondata dai vicini allarmati dalle urla. L'ultima cosa che riuscì a vedere prima che tutto diventasse confuso, fu la mano del mostro che per un istante, da invisibile si materializzò per poi sparire all'interno dell'armadio.
mercoledì 6 dicembre 2017
La creatura nel buio - Seconda parte
Passarono il resto della serata giocando tutti e tre assieme, ma per qualche "magico" motivo, il vincitore era sempre Rupert.
Mentre la piccola pendola da tavola, appartenuta alla madre di Shirley, suonò le nove, il bambino faticava a tenere gli occhi aperti e la testa gli oscillava continuamente in avanti, rischiando di picchiarla sul tavolo.
"E' ora di andare a letto" sentenziò lei
A quelle parole Rupert spalancò gli occhi e cominciò a urlare:
"No mamma, ho paura, per favore...ancora un po'..."
Shirley ripensò a suo figlio che spariva nel buio della sua camerette per recuperare il gioco in scatola, ma decise di non dire nulla a tal proposito. Invece lo prese tra le braccia e gli disse:
"Non vedi che stai crollando dal sonno? I bambini della tua età hanno bisogno di molte ore di sonno"
"No, non voglio!" continuò a Rupert scoppiando in un pianto isterico "c'è il mostro dell'armadio...".
"Non c'è nessun mostro..." replicò Shriley
"Va bene, puoi stare alzato ancora dieci minuti" la interruppe Ed
Lei gli lanciò un'occhiataccia; non le piaceva dover far la parte della mamma cattiva e quando Edwin la contrariava così sentiva minata la sua autorità, non che ciò capitasse spesso, anzi, ma la cosa comunque non le andava giù.
Qualcosa nello sguardo di suo marito però la sorprese, tanto da dimenticare subito quella piccola onta; Ed sembrava spaventato.
Lui parve accorgersene e le si avvicinò sussurrandole qualcosa all'orecchio.
Il broncio di Shirley si trasformò in un sorriso; poi sorrise anche lui.
Mezz'ora dopo il bambino non era ancora andato a letto, tuttavia la stanchezza aveva avuto la meglio su di lui e si era addormentato sul divano, incurante dei tuoni che facevano tremare i vetri delle finestre. Edwin lo prese delicatamente in braccio e guardando la moglie le disse:
"Arrivo subito, aspettami di là". Poi portò il figlio nella sua cameretta, lo spogliò, gli mise il pigiama e lo infilò sotto le coperte.
Dopo averlo baciato sulla fronte se ne andò, ma si bloccò sull'uscio. Si guardò indietro e vide che alcune ante dell'armadio erano aperte, tornò sui suoi passi e le chiuse, poi andò da sua moglie.
Si sedettero sul letto e cominciarono entrambi a spogliarsi vicendevolmente; lui le tolse la camicetta, scoprendole i bianchi seni che accarezzò con dolcezza e baciò con passione mordicchiandole i rosei capezzoli. Lei gli sfilò la t-shirt e gli passò le mani sul petto liscio e ben definito, passando per i fianchi e arrivando al ventre piatto, qui lei gli passò la lingua attorno all'ombelico, mentre gli sbottonava i jeans, quindi gli afferrò il membro assaporandolo prima con le labbra e poi la lingua e il palato. Edwin lasciò che lei continuasse ancora un po'. poi con forza la scaraventò supina sul letto, con un solo colpo le tolse pantaloncini e slip e ricambiò l'appagamento appena ricevuto.
Continuarono a far l'amore per molto tempo, mentre il temporale, che non accennava a smettere, copriva i loro gemiti di piacere.
giovedì 26 ottobre 2017
La creatura nel buio - Prima parte
Il temporale durava da quasi due ore e da qualche minuto mancava la corrente. La casa era completamente buia, così Edwin si muoveva lentamente, accanto alle pareti, allungando attentamente le mani per ripararsi da eventuali ostacoli (è vero, era casa sua, ma sfido chiunque a girare pere casa propria senza vedere nulla; se non ci si aiuta con le mani si rischia di ritrovarsi con qualche livido indesiderato).
Arrivò, con un po' di fortuna, alla scrivania dello studio, aprì il terzo cassetto e ne tirò fuori una torcia elettrica. Spinse il pulsante, ma la stanza rimase buia.
"Cazzo..." sibilò tra i denti "le batterie..."
Svitò il tappo sul retro e girò la torcia verso il basso; tre grosse batterie, ormai scariche, caddero sul pavimento, che Edwin gettò nel cassetto assieme alla pila.
"Papà ho paura!" urlò una piccola voce
"Stai tranquillo Rupert , ho quasi fatto" rispose di rimando Ed "Non c'è nulla di cui aver paura"
Bugia! Appena quelle parole gli uscirono di bocca sentì che erano false, ma certo non poteva dire a suo figlio che anche lui era spaventato. Ed era consapevole di quanto fosse assurda e irrazionale questa cosa, dato che era un uomo adulto, ma non poteva farci nulla, se non mostrarsi il più tranquillo possibile.
Improvvisamente gli tornò in mente la battuta di un vecchio film horror: "Non ho paura del buio, ho paura di quello che c'è dentro al buio".
Rabbrividì e una specie di déjà vu gli attraversò rapidamente il cervello, come un ricordo che non vuole affiorare.
"Tutto bene caro?" la voce di Shirley era ferma e rassicurante
"Si...sto cercando le candele.."
"Sono nella scatola nello sgabuzzino all'ingresso"
Edwin recuperò le candele con non poca fatica accendendole con l'accendino che aveva nella tasca dei jeans e tornò subito in salotto, dove la sua famiglia lo stava aspettando.
Shirely e Rupert erano accoccolati assieme sul divano con il bambino che teneva la testa appoggiata al ventre materno e si succhiava il pollice della mano destra, mentre la donna gli accarezzava amorevolmente i capelli.
"Eccomi" disse Ed facendo il suo ingresso nella stanza
Appena lo vide, il figlio gli corse incontro e gli si avvinghiò alle gambe, facendogli quasi perdere l'equilibrio.
"Hai avuto tanta paura?" gli chiese prendendolo in braccio
"No, solo un po'" mentì il bambino asciugandosi una lacrima che gli scendeva sul volto
"Ti va di fare un gioco prima di andare a dormire?"
Il viso di Rupert si illuminò.
"Posso scegliere quello che voglio?"
"Certo!" gli rispose il padre
"Il castello incantato!" urlò il bambino prima di sparire nel buio della sua cameretta e facendo ritorno, qualche minuto, dopo con una grossa scatola tra le mani.
Edwin e Shirley si guardarono stupiti per un attimo, ma nessuno dei due pensò per un solo istante di chiedere al figlio che fine avessero fatto tutte le sue paure.
I due genitori si sorrisero.
giovedì 7 settembre 2017
Blu
Da quanto tempo stava vagando in quella infinita distesa blu? Sei giorni? Forse sette… Oramai aveva perso il conto… Il sole alto nel cielo gli stava bruciando la pelle e facendo salire la febbre. Per quanto attento fosse stato, ormai le poche razioni di cibo e acqua che gli avevano lasciato, prima di abbandonarlo in mezzo all’oceano, dopo che lo avevano trovato nascosto nella stiva, stavano per finire e il processo di disidratazione era già iniziato da qualche giorno. Quanto avrebbe potuto resistere in quelle condizioni? Due giorni, forse tre se era fortunato. Ma data la situazione era chiaro che la fortuna lo aveva abbandonato già da un pezzo.
Si alzò a sedere e si guardò stancamente attorno . Sperava di poter scorgere il profilo di qualche terra, o la silhouette di una nave; al momento si sarebbe accontentato di vedere l’avvicinarsi di qualche nuvola carica di pioggia, ma attorno a lui si vedeva solo l’azzurro del cielo e il blu del mare.
Prese lo zaino che conteneva il cibo e ne tirò fuori l’ultimo pezzo di cioccolata. Rimase qualche istante a fissarla chiedendosi se fosse il caso di conservarla per un momento di maggiore necessità, ma rendendosi conto dell’assurdità di quel pensiero, cominciò a ridere debolmente e poi a tossire sempre più violentemente. Quando la tosse si calmò, divorò avidamente quell’ultimo residuo di cibo; almeno se fosse morto, lo avrebbe fatto con un sapore dolce in bocca…
Ormai convinto che sarebbe morto di sete ancor prima che di fame, pensò di provare a ispezionare meglio lo zaino e in una tasca all’interno, trovò un lungo pezzo di corda, un coltello e un accendino. Bene, pensò, forse la sorte stava cominciando a sorridergli, allora con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a far bollire dell’acqua per renderla potabile e con il coltello avrebbe potuto pescare qualche piccolo pesce. Ritemprato da questo pensiero ,decise di provare subito a catturare qualche preda; si legò un capo della corda ad una caviglia e l’altro lo legò al maniglione a poppa della scialuppa, quindi si tuffò in acqua.
Man mano che scendeva il blu del mare diventava sempre più scuro, poi ad un certo punto sentì una fitta alla caviglia e capì di essere arrivato al limite che la corda gli consentisse di arrivare, la visibilità sott’acqua era ancora abbastanza buona, ma decise comunque di risalire qualche metro per poter scorgere meglio le sue prede. E fu proprio mentre risaliva che vide quel grosso pesce che nuotava poco sotto la sua barca. Non sapeva che tipo di pesce fosse, ne tantomeno se fosse velenoso, ma ormai la cosa aveva poca importanza, per cui non si pose nemmeno la questione e gli si lanciò incontro con il coltello sguainato.
Al primo affondo procurò al pesce una lunga ferita sul lato sinistro, dall’occhio fino alla pinna caudale, ma l’animale, anziché arrendersi cominciò prima a dibattersi con forza, poi a scendere rapidamente sempre più in profondità rendendo vano ogni tentativo di catturarlo.
Ormai sentiva il fiato venirgli meno, per cui decise di lasciar pesce e di tornare in superficie a recuperare qualche boccata d’aria. Era quasi arrivato, quando sentì un dolore così lancinante che credeva non avrebbe mai potuto provare. Un enorme squalo, probabilmente attirato dal sangue del pesce che aveva ferito, gli aveva addentato la caviglia legata alla corda, staccandogli di netto il piede che ora spuntava dalle mascelle ghignanti del pescecane. Con i polmoni che gli stavano per esplodere, la gamba che gli faceva un male atroce e il moncherino che sanguinava copiosamente, cercò di nuotare più rapidamente possibile verso la superficie, per fuggire al temibile predatore.
Fortunatamente riuscì a salire sulla scialuppa prima che lo squalo tentasse un nuovo attacco, cadendo immediatamente svenuto; quando riprese conoscenza si sentì ancora più debole e non gli ci volle molto a capire il perché: tutta la prua era sporca del suo stesso sangue che continuava a uscirgli dalla caviglia mozzata e per fortuna che l’acqua salata aveva in parte rallentato la perdita di sangue, tuttavia non poteva certo sperare di fermare l’emorragia sono con l’acqua marina. Avvolse la t-shirt attorno al moncherino e strinse un pezzo di corda attorno alla caviglia per rallentare la circolazione, ma anche così non poteva sperare di sopravvivere a lungo. La soluzione era una sola e lui lo sapeva benissimo.
Con lo stomaco che gli si stava rivoltando, recuperò l’accendino dallo zaino e iniziò a scaldare la lama del coltello. L’operazione richiese quasi una decina di minuti, poiché la fiamma era piccola, ma poi l’arma era sufficientemente calda per portare a termine il lavoro che si era proposto. Quando affondò la lama sulle morbide carni della ferita, il mondo cominciò nuovamente a vorticare e solo grazie alla sua infinita voglia di sopravvivere, riuscì a non svenire e a finire la dolorosa operazione, dopodiché scivolò in un sonno profondo.
Si risvegliò ai primi morsi della fame, confuso, non rendendosi ben conto di dove si trovasse; e quando finalmente ricordò dove si trovava e qual era la sua situazione, inizio a piangere sommessamente.
Allora, ricordò un racconto che aveva letto qualche anno prima, L’arte di sopravvivere, di Stephen King, in cui un uomo, naufragato su un isolotto, nel profondo blu dell’oceano Pacifico, si trovava presto senza cibo e pur di sopravvivere si amputava, un po’ alla volta, gli arti inferiori per cibarsene.
Guardò il moncherino dolorante e si chiese se anche lui avrebbe trovato il coraggio di fare una cosa simile, ma al solo pensiero sentì lo stomaco rivoltarsi, ma riuscì solo a rigurgitare aria.
Gettò il coltello in acqua e si lasciò scivolare nuovamente sul fondo della scialuppa, ormai totalmente privo di forze e rassegnato a morire, ma fu proprio allora, mentre il blu del mare si confondeva con l’azzurro del cielo, prima che tutto diventasse un unico indistinto grigio, che qualcosa, nel cielo, gli fece tornare una flebile speranza. A qualche metro sopra la sua testa c'era un gabbiano che girava in tondo, come fosse alla ricerca di cibo.
Rincuorato da quella visione, convinto di essere vicino alla terra ferma, o quanto meno ad una grossa nave, scivolò serenamente in un profondo sonno, solo un istante prima di potersi accorgere che anche quel gabbiano era venuto lì per morire da solo.
lunedì 28 agosto 2017
La donna sulla Punto rossa
Al ritorno da una serata passata in compagnia, un tale che stava guidando su una strada secondaria, quando nota sul ciglio della strada una bella ragazza che faceva l’autostop. Dopo un attimo di esitazione decide comunque di fermarsi e di darle un passaggio.
lunedì 31 luglio 2017
Nuoce gravemente alla salute
Alfio rideva mentre Sandro gli raccontava di quel corso motivazionale per smettere di fumare che aveva fatto l’inverno prima.
giovedì 20 luglio 2017
Visita all'inferno
Ripropongo un vecchio racconto, ancora un po' ingenuo in alcuni passaggi, soprattutto per il finale frettoloso, ma tutto sommato ne sono abbastanza soddisfatto...e prima di ricevere critiche ingiuriose, si ho avuto ispirazioni dylandoghiane...