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venerdì 14 aprile 2023

Chiara (racconto)

Questo è un altro racconto caduto nel dimenticatoio ripescato da una vecchia mail, è un lavoro diverso rispetto ai miei soliti racconti, non ricordo se fosse un esercizio di stile o qualcosa fatto per un concorso tematico, ma la cosa che più incredibile è che sembra descrivere abbastanza fedelmente mia moglie, ma è stato scritto almeno tre anni prima di conoscerla e cinque o sei, prima che iniziasse la nostra relazione. 
Devo ammettere che al tempo e ciò si noterà nel racconto stesso, ero un po' prevenuto nei confronti delle persone con qualche chilo in più addosso, ma nel frattempo, non solo ho avuto modo di ricredermi, ma mi sono profondamente innamorato di una di loro.


Chiara si fermò davanti allo specchio nell’entrata di casa. Si sistemò i capelli biondi ricordando quando da ragazzina portava i capelli lunghi e che le piaceva attorcigliarci attorno un dito, vizio che le era rimasto anche ora che li aveva corti, perché non aveva più la pazienza di curarli con l’attenzione che richiedono le lunghe pettinature. Sul viso rotondo costellato da efelidi, dovute alla sua carnagione chiara, che al sole, anziché assumere un colore ambrato, arrossiva fino a darle l’aspetto di un grossa fragola, non c’era traccia di cosmetici. Non amava molto passare le ore tra rossetti, rimmel e phard, si truccava quel tanto che bastava per mascherare le fatiche di una lunga giornata.
In cucina, i suoi genitori e i suoi fratelli stavano cenando. Lei passò a salutarli senza dimenticarsi di Rudy, il suo amato bassotto, al quale ultimamente aveva dedicato più tempo che al suo ragazzo.
Dopo un’ultima occhiata allo specchio uscì rapidamente di casa. Come detto, Chiara, non era una ragazza vanitosa, del resto il suo fisico robusto non le permetteva di esserlo, ma come alla maggior parte delle donne, quando usciva di casa, piaceva essere in ordine. Una t-shirt scura e un paio di jeans erano l’ideale per una serata in compagnia dei suoi amici; semplicità e comodità, come piaceva a lei. Quella sera riuscì a convincere i suoi amici ad andare a mangiare al ristorante cinese, per il quale aveva una vera passione. Probabilmente questa predilezione era nata nell’adolescenza, quando credeva erroneamente, che la cucina cinese fosse tutta ipocalorica. Poi scoprì che c’erano anche diversi piatti fritti e moltissime salse che erano tutt’altro che dietetiche.
Arrivò all’appuntamento in orario, come da sua abitudine. Non era il tipo da arrivare addirittura in anticipo, ma odiava abbastanza i ritardi, per essere sempre puntuale.
Durante la cena chiacchierarono del più e del meno, senza scendere in discorsi particolarmente impegnativi. Chiara era così, simpatica, divertente e molto sensibile, ma non le piaceva parlare di se stessa e dei suoi problemi con persone con le quali aveva poca confidenza e, anche se quella sera era in compagnia dei suoi amici, non con tutti si sentiva libera di confidare le sue preoccupazioni. Se aveva bisogno di sfogarsi, di solito lo faceva con il suo ragazzo, ma anche lui non aveva accesso ai segreti più intimi che Chiara conservava gelosamente.
Gli amici però si fecero una grossa risata quando Chiara raccontò loro di un incubo che la tormentava da qualche tempo a quella parte, e cioè quello in cui veniva inseguita da una statua di Boccioni. Tale incubo derivava dall’inconsueta paura, che Chiara aveva, di rimanere rinchiusa all’interno di un museo senza la possibilità di uscire. Ancora di più la spaventavano i musei di arte moderna, con tutte quelle sculture e dipinti dalle forme astruse e minacciose.
Dopo cena, tutti assieme andarono al cinema. Questa non era una vera passione, ma a Chiara piaceva andare al cinema, in compagnia degli amici o del moroso e poi discutere del film appena visto. Videro un film romantico e Chiara si commosse, ricordando quel ragazzo che le aveva spezzato il cuore. Ma ora aveva una persona che la amava e lei era felice.
Più tardi, mentre si infilava a letto, nella sua camera, le cui pareti erano coperte dalle numerose cartoline che aveva raccolto in giro per il mondo, e sul cui pavimento risaltava anacronisticamente una cassetta di mele che aveva portato a casa dal Trentino soltanto qualche giorno prima, Chiara ripensò a tutto ciò e sorrise. Era circondata da persone che le volevano bene, aveva viaggiato molto e fatto esperienze che la maggior parte della gente che conosceva, mai avrebbe fatto. C’era solo una cosa che ogni tanto tornava a disturbarla, ed era il pensiero del suo fisico abbondante; ormai aveva imparato ad amare il suo corpo e quasi non faceva più caso agli sguardi e alle risate che qualche idiota ancora le rivolgeva, ma ogni tanto, come quando era bambina, sognava di essere una farfalla.

martedì 4 aprile 2023

La corsa (racconto)

Scartabellando alcune vecchie mail ho trovato dei vecchi racconti che ancora non avevo pubblicato: ecco il primo di essi, chiaramente ispirato da "La lunga marcia" di Stephen King sotto lo pseudonimo Richard Bachman.
Spero possa piacervi.



Salvatore continuava a correre anche se ora il suo passo era incerto e caracollante; ormai la meta era vicina e soltanto grazie all’istinto di sopravvivenza era riuscito a proseguire, dopo che i suoi compagni erano tutti caduti, uno dopo l’altro, durante il massacrante percorso. Erano partiti circa tre settimane prima da Sitka, in Alaska e dopo un percorso di quasi 5600 km, in cui avevano attraversato pressoché un quarto degli interi Stati Uniti, ora stava per giungere, da solo, a Key West, nell’assolata Florida.
La micidiale corsa era stata organizzata dal direttore di un grande penitenziario, con il benestare del governo e del Presidente, a causa dell’enorme sovraffollamento della prigione. Al momento della gara si contavano quasi cinquantamila detenuti, contro i trentamila che la struttura poteva normalmente contenere. Le insurrezioni erano ormai all’ordine del giorno ed era sempre più difficile tenerle sotto controllo, motivo per cui il direttore aveva pensato ad un sistema per liberarsi della maggior parte dei prigionieri, in maniera “più o meno” legale. Aveva dunque organizzato questa folle corsa, assicurando immediata libertà a chiunque fosse riuscito ad arrivare sano e salvo al traguardo, ma naturalmente si era anche preoccupato che a fine gara, arrivasse meno gente possibile. I detenuti che avessero deciso di partecipare dovevano seguire un percorso obbligato, controllati costantemente da militari armati; ogni tentativo di fuga sarebbe stato punito con la fucilazione immediata. In ogni caso, a tutti i carcerati venne installato un microchip, così se anche qualcuno fosse riuscito a eludere la sorveglianza, sarebbe stato immediatamente rintracciato e giustiziato. Inoltre, come rifornimento, erano elargiti solamente mezzo litro d’acqua e una tavoletta di cioccolato al giorno; ma la cosa più devastante era che veniva concesso solamente un’ora di riposo, ogni ventiquattro di corsa. Non ci si poteva fermare, non ci si poteva ritirare, non era permesso ostacolare gli altri concorrenti, ogni trasgressione alle regole veniva punita con una tempestiva esecuzione; la sola cosa che si potesse fare era correre e resistere, fino alla fine.
Sui cinquantamila detenuti, ben quarantamila avevano deciso di partecipare alla massacrante corsa; dopo tutto la maggior parte di loro avrebbe dovuto farsi almeno trent’anni di galera, e la prospettiva di ottenere la grazia era più allettante rispetto alla consapevolezza dell’enorme fatica che li aspettava per ottenerla. Dopo il primo giorno, le guardie di scorta fucilarono circa duemila carcerati, la maggior parte dei quali perché aveva tentato di fuggire, altri perché erano crollati o si erano arresi. Il giorno seguente, a venire uccisi furono altri cinquemila detenuti e altri settemila il terzo giorno. Poi, anche a causa delle morti dovute alla fatica e alle imprudenze, i corridori cominciarono a capire che ci voleva una strategia, non era sufficiente correre e basta e per quanto possibile, dovevano spalleggiarsi e aiutarsi a vicenda. Dopo queste riflessioni, per diversi giorni, il numerò di decessi calò vertiginosamente: appena un migliaio in quattro giorni. Tuttavia questa situazione non durò molto, le rivalità e le tensioni all’interno del gruppo erano troppo forti; ognuno voleva prevalere sull’altro, così dopo due settimane dall’inizio della mega maratona (così era stata soprannominata dai media che seguivano la vicenda con macabro voyerismo), si contavano quasi trentamila morti e all’ultimo giorno di gara i sopravvissuti erano non più di cinquecento.
Salvatore stava scontando una pena di vent’anni per aver ucciso un tizio in una lite nel parcheggio di una discoteca. Lui non era tipo da invischiarsi in quel tipo di cose, ma odiava farsi mettere i piedi in testa, e quando quel ragazzo, che avrà pesato più di un quintale, aveva cominciato a provocarlo in pista da ballo, non si era tirato indietro. Sapeva che molto probabilmente avrebbe avuto la peggio, ma a lui interessava dimostrare che nessuno poteva permettersi di prendersi gioco di lui, solo perché non era grande e grosso.
Poi però le cose erano andate diversamente da come se l’era immaginate ed era bastato un pugno alla gola per far si che il ragazzo morisse soffocato. Da quel giorno erano passati già cinque anni e durante tutto quel periodo, in carcere aveva subito ogni genere di abuso, fisico, sessuale e psicologico e quando aveva deciso di farla finita gli si era presentata l’occasione della corsa, così non se l’era fatta sfuggire. Ora, all’ultimo giorno di gara, era rimasto tra i pochi sopravvissuti, ma si sentiva sempre più esausto e temeva che sarebbe crollato proprio ora che stava per raggiungere il traguardo. Quell’estenuante prova lo aveva ridotto a essere l’ombra di se stesso, come se non fosse stato già abbastanza magro; le gambe, che ormai si muovevano da sole, lo reggevano per miracolo, ed era consapevole che se si fosse fermato a riposare un’altra volta, non sarebbe più riuscito a mettersi in piedi, per cui continuò ad arrancare faticosamente nonostante non dormisse ormai da più quasi tre giorni.
Davanti a lui, un giovane asiatico si bloccò improvvisamente in mezzo al percorso e si sedette a terra; non fece nemmeno in tempo a superarlo che una guardia lo raggiunse e gli sparò alla testa. Salvatore passò oltre indifferente; qualche giorno prima probabilmente si sarebbe perlomeno chiesto chi era quel ragazzo, se lo conosceva, se durante le detenzione aveva avuto modo di parlarci o di farci amicizia, ma in questo momento, nulla di tutto ciò aveva importanza, l’unica cosa che contava era arrivare alla fine. Improvvisamente, il suo sguardo perso si fece lucido, c’era qualcosa di diverso in fondo alla strada; la gente che fino a quel punto aveva seguito la maratona, era sempre rimasta diligentemente a bordo strada, controllata dalla polizia in modo che non interferisse con la gara, ma ora sembrava che fossero tutti ammassati, lasciando solo uno stretto corridoio, attraverso il quale sarebbe dovuto passare.
Il traguardo era vicino.
Entrò in città accolto da una folla festante che lo incitava e incoraggiava, anche se lui non era del tutto consapevole. Solo quando, oltre la piazza principale vide la linea del traguardo, come mosso da un improvvisa forza misteriosa, accelerò il passo, senza però tener conto delle sue gambe esauste.
Un crampo al polpaccio destro gli fece perdere l’equilibrio, facendolo finire a terra; ma Salvatore di tutto ciò non si rese conto, non si rese conto del suo volto che picchiava contro il pavimento in porfido, non si rese conto dell’arrivo delle guardie e non si rese conto di quell’ultimo colpo di fucile. La sola cosa che Salvatore sapeva, era che ce l’aveva fatta, aveva passato il traguardo, aveva vinto e ora era finalmente libero.

giovedì 26 settembre 2019

La creatura nel buio - Fine

Eccomi dopo sei mesi dall'ultima pubblicazione a chiudere il mio racconto a puntate che spero che vi sia piaciuto anche solo in parte.
Prima di proseguire con la lettura vi segnalo gli altri capitoli in caso vi mancassero:


PARTE 1, 2, 3, 4, 5, 6



Il lancinante dolore alla spalla lo riportò alla realtà e si accorse che era rimasto svenuto solo qualche secondo. La creatura lo stava ancora tenendo sollevato sopra la scrivania a pochi centimetri dalle sue fetide fauci.
Shirley raggomitolata con suo figlio tra le braccia, stava osservando quella scena impietrita dal terrore, ormai rassegnata a non sopravvivere.
Dalla ferita, il sangue scendeva copioso riversandoglisi sul petto e la fitta costante gli impediva di pensare chiaramente, eppure Edwin sapeva che doveva trovare una soluzione per uccidere il mostro e salvare Shirley e Rupert.
Improvvisamente sgranò gli occhi, ma questa volta non fu per il dolore; qualcosa gli passò per la mente, un'immagine rapida come un battito di ciglia, un ricordo sopito, l'eco di un sogno dimenticato.
La palla, doveva recuperare la palla di Joe Di Maggio. Quando Mr Dunham gliel'aveva regalata molti anni prima, prendendola in mano Ed aveva provato un formicolio al braccio e un brivido lungo la schiena e quasi era svenuto. Al tempo aveva attribuito la cosa all'emozione, ma forse quella palla aveva qualcosa di speciale, qualcosa di magico e ora si trovava sopra il caminetto del salotto.
Ed cercò lo sguardo di sua moglie dall'altro lato della stanza e senza emettere un suono le parlò; le disse quanto la amava e quanto amava il loro bambino, le disse che per lei avrebbe combattuto contro cento mostri, che avrebbe affrontato la morte stessa se fosse stato necessario, ma che in quel preciso momento aveva bisogno del suo aiuto, che doveva farsi forza e che toccava a lei a salvare la sua famiglia.
Sotto il velo di lacrime, gli occhi di Shirley si illuminarono e fece un segno d'assenso a Edwin.
Approfittando del fatto che il mostro fosse concentrato solo su suo marito, la donna afferrò la lampada a stelo accanto al lettino del bambino e usandola come un asta colpì la creatura in pieno volto.
L'essere sibilò, più per la sorpresa che per il dolore, ma tanto bastò per fargli perdere la presa su Ed, che ruzzolò pesante prima sulla scrivania e poi sul pavimento.
Quando si rialzò, Edwin vide che la creatura aveva afferrato Shirley per la gola, si guardò dunque velocemente attorno, poi raccolse un tagliacarte e avventandosi contro il mostro, glielo conficcò in un occhio, permettendo alla donna di liberarsi.
Questa volta l'urlo fu di autentico dolore misto a rabbia, ma Edwin fece in tempo a prendere suo figlio per la vita e a trascinarlo fuori dalla camera, mentre Shirley li seguiva a ruota.
"Andate, porta via Rupert di qua" le ordinò
"Ma.." cercò di obiettare lei
"Vai via!" urlò "Ora non c'è tempo..." poi con un ton un tono più rassicurante possibile aggiunse "ce la farò".
Entrambi sapevano che quella promessa era falsa; non potevano essere sicuri che lui ne sarebbe uscito vivo, ma per permettere a Rupert di salvarsi, l''unica soluzione era scappare in quel preciso istante.
Shirley prese il bambino in braccio e scese per strada voltandosi una sola volta in cerca di suo marito, sperando che lui avesse deciso di seguirla, ma Ed era già corso in salotto per recuperare la palla da baseball,un attimo prima che la creatura uscisse dalla cameretta in cerca della sua preda.
Edwin arrivò in un lampo al caminetto del salotto e afferrò la palla magica proprio quando l'essere lo raggiunse bloccandogli l'unica via d'uscita.
Ora erano solo lui e il mostro e aveva solo un tiro a disposizione per vincere la partita, altrimenti sarebbe stata la fine per tutti.
La creatura lo guardò con l'unico occhio buono che gli era rimasto, quindi gli si fece incontro con un urlo inumano.
Ed strinse la palla tra le dita e mentre caricava il tiro, portando il braccio fin dietro alla spalla dolorante, una sorta di scossa gli percorse l'intero arto e lui seppe che quello era il momento giusto.
Lasciò partire il tiro e fece strike.
La palla si conficcò nell'orbita oculare del mostro, spappolandogli il cervello e facendolo crollare a terra  morto sull'istante.
Edwin si avvicinò cautamente al corpo dell'essere, ma questi non si mosse più. Tuttavia, non ancora convinto, portò il cadavere in garage per farlo a pezzi con il decespugliatore.
Una volta finito, Ed raggiunse Shirley e Rupert che vedendolo arrivare gli corsero incontro per abbracciarlo, abbandona l'aiuto portato dai vicini preoccupati.
Poi si udirono soltanto le sirene dei soccorsi che si stavano avvicinando.

giovedì 7 marzo 2019

La creatura nel buio - Sesta parte

Dopo diversi mesi, proseguo con la pubblicazione del racconto a puntate.
Qui, se volete, gli altri capitoli:

PARTE 1, 2, 3, 4, 5



"Mettici più forza in quel braccio!" gli urlò Mr Dunham.
Edwin alzò lo sguardo e guardò il suo allenatore.
"Cosa sono quegli occhi lucidi?" urlò nuovamente furioso "Non voglio vedere lacrime, io voglio che i tuoi occhi sprizzino rabbia; d'accordo Edwin Crichlow?!"
"Sissignore!" rispose il ragazzo
"Bene e allora fammi vedere un lancio decente o ti sbatto fuori squadra."
Richard Stanley Dunham era l'allenatore della locale squadra giovanile da circa quattro anni e anche se non avena vinto ancora nulla era molto rispettato e temuto. Sebbene avesse quasi sessant'anni aveva una forze ed energie da vendere, così come aveva un fisico da atleta professionista.
Quando i suoi giocatori non eseguivano i suoi ordini li riprendeva con tanto di quel fervore che spesso, alcuni di questi, scoppiavano in lacrime e allora lui urlava ancora più forte. Più tardi però, prima della fine dell'allenamento, prendeva questi ragazzini in disparte, li rincuorava dando loro qualche consiglio per superare glie errori e regalandogli una bottiglia di Coca-Cola o qualche merendina.
Si parlò a lungo di quella volta che, dopo un'umiliante sconfitta, richiamò in campo i ragazzini quando questi erano già sotto la doccia e li costrinse a fare diversi giri del campo completamente nudi, mentre dagli spalti si levavano grida sarcastiche miste alle rimostranze dei genitori.
Ed si ricordò di tutto questo mentre si preparava a lanciare; sapeva che il suo allenatore era una persona eccezionale e di gran cuore, in particolare fuori dal campo, ma pretendeva sempre il massimo impegno dai suoi ragazzi, sia in allenamento che durante la partita e soprattutto non amava essere contrariato e lui non aveva certo intenzione di farlo.
Si concentrò dunque sul tiro e dopo un attimo scagliò la palla che arrivò con forza dritta nel guantone del ricevitore.
"Ottimo lancio!" urlò l'uomo
Quando però Edwin si girò sorridente verso l'allenatore, questi stava già strigliando qualcun altro.
Alla fine dell'allenamento Mr Dunham entrò nello spogliatoio guardandosi attorno con sguardo severo. Tutti i ragazzi ammutolirono temendo una nuova sgridata generale, invece lui lentamente si avvicinò a Ed, gli prese la mano e vi appoggiò sopra una vecchia palla.
"Hai un gran bel tiro, ragazzo. Continua così e forse quest'anno avremo qualche speranza di arrivare alle finali"
Dopodiché gli sorrise, scompigliandogli i capelli e se ne andò.
Dopo qualche istante di stupore, nello spogliatoio ricominciò la confusione che c'è in tutti gli spogliatoi del mondo, specialmente quando ci sono di mezzo ragazzini. Qualcuno si complimentò con Ed, mentre altri lo guardarono con un pizzico di invidia.
Lui osservò la palla che gli era stata appena regalata. C'era una firma:
JOE Di MAGGIO
Improvvisamente sentì che le gambe non lo reggevano più, la testa cominciò a girare e in un attimo tutto fu buio.

mercoledì 26 settembre 2018

La creatura nel buio - Quinta parte

L'ultima volta che ho pubblicato parte del racconto a puntate che sto riproponendo, riveduto e corretto, qui sul blog era aprile, perciò direi che è venuto il momento di proseguire.
Qui di seguito i link ai capitoli precedenti:


PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
TERZA PARTE
QUARTA PARTE




Si precipitarono entrambi in camera di Rupert e quello che videro fece gelare loro il sangue.
Rupert si dibatteva nel suo letto, come se colta da un attacco epilettico e urlava in preda al panico e al dolore. Il pigiama del bambino era lacerato in più punti e la sua pelle mostrava lunghi graffi.
"Che cos'ha?" chiese Shirley con voce tremante
"Non ne ho idea" mentì Edwin
All'improvviso il corpo di Rupert fu sollevato a mezz'aria da una forza invisibile dove continuò ad agitarsi e dimenarsi.
"Aiuto mamma, aiuto!"
Shirley si gettò incontro al figlio prima che Ed riuscisse a bloccarla.
"No!" gridò lui
Fu tutto inutile, lei nemmeno lo sentì. Tentò di afferrare Rupert per un braccio, ma la stessa forza invisibile che teneva prigioniero il bambino, la scaraventò a terra con forza.
Shirley si guardò attorno più stupita che spaventata, non capendo cosa fosse accaduto.
Fu allora che la creatura emerse dall'oscurità, mostrandosi in tutto il suo orrore, mentre con un artiglio teneva sollevato il piccolo Rupert pericolosamente vicino alle sue fauci.
L'apparizione di quel mostro sbloccò Edwin che fino a quel momento, in realtà non più di qualche secondo, era rimasto paralizzato dalla paura.
Non aveva mai visto niente di così orribile: la creatura era piuttosto alta con la testa grossa e allungata da cui spuntavano due piccole corna; gli occhi gelatinosi erano di un giallo spento, mentre la bocca rugosa era spalancata mostrando una lunga fila di denti affilati come rasoi e una grossa lingua squamosa che pendeva da un lato della bocca.
Mentre l'essere era distratto dall'attacco di Shirley. lui tentò di sorprenderlo afferrandolo per il collo da dietro. Inizialmente sorpresa, la creatura cominciò dibattersi, sibilando per la rabbia.
Con l'artiglio libero riuscì ad acciuffare Edwin per i capelli e a scagliarlo contro la porta socchiusa della camera.
Ed trattenne un mugugno di dolore, ma per lo meno, il suo tentativo di liberare il figlio, non rimase privo di frutti. Infatti, cercando di liberarsi del suo avversario, la creatura aveva perso la presa sul bambino che cadde svenuto sul suo lettino.
Il mostro si girò verso Edwin guardandolo con rabbia o almeno è quello che lui pensò di leggere in quegli occhi vacui.
"Vieni qua bastardo!" urlò Edwin scagliandogli addosso una sedia "E' me che vuoi...io ho un conto in sospeso con te, lascia stare mio figlio."
La creatura grugnò e nonostante la sua mole, si mosse con sorprendente rapidità verso l'uomo che lo aveva sfidato.
Shirley approfittò di quel momento per soccorre suo figlio; lo prese in braccio e se lo portò al petto, rannicchiandosi in un angolo del letto.
Vedendo il mostro avvicinarsi, Ed si tuffò dietro alla scrivania dove Rupert si sedeva qualche volta a disegnare, ma i suoi movimenti furono troppo lenti, infatti la creatura riuscì ad afferrarlo per un braccio affondandogli le unghie nella spalla.
Ed urlò di dolore e il mondo attorno a lui cominciò a farsi torbido fino a quando divenne tutto buio.

giovedì 12 aprile 2018

La creatura nel buio - Quarta parte

Dopo una lunga pausa, ecco la quarta parte del racconto che sto scrivendo a puntate. Qui di seguito i link per leggere la storia dall'inizio:

PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
TERZA PARTE

Ed si risvegliò nel momento in cui gli extraterrestri iniziavano il loro attacco alla Terra.
Un sogno, o meglio, il sogno di un ricordo, quel ricordo che lo aveva svegliato nel cuore della notte.
Spense il televisore e gettò il telecomando sulla poltrona.
Ora ricordava tutto; per molto tempo era riuscito a dimenticare quella terribile notte, che per tutta la sua infanzia gli aveva causato incubi spaventosi, ma poi con il passare del tempo questi erano svaniti, senza quasi lasciare traccia. Almeno apparentemente.
E se invece fosse stato veramente tutto solo un sogno? Un bruttissimo sogno partorito dalla fantasia di un bambino di sette anni, troppo scosso per poter credere alla realtà di un maniaco omicida, che preferì trasformarlo in un mostro, nel babau delle fiabe?
No, lo sapeva adesso, come lo sapeva allora; a uccidere i suoi genitori e a rapire suo fratello, non era stato un pazzo, ma un mostro reale, un essere orribile che viveva dentro all'armadio.
"Perché?" chiese Ed alla stanza buia "perché mi sono ricordato tutto oggi, dopo così tanto tempo?"
La risposta gli arrivò fulminea, trapassandogli il cervello come una pallottola e trasformandogli la schiena in un ghiacciolo.
"E' TORNATO!"
Un nuovo fulmine fece nuovamente saltare la corrente.
Edwin si alzò di scatto, perdendo l'asciugamano che aveva annodato in vita e corse rapidamente in camera sua.
Si fermò sulla porta, da lì sua moglie era poco più di un'ombra, ma il lento movimento del lenzuolo, dovuto al respiro di Shirely, lo tranquillizzò.
Si sedette sul letto e lei si girò verso di lui.
"Ciao" gli disse sottovoce
"Scusa, ti ho svegliata"
"No, non ti preoccupare ero già praticamente sveglia, ma..." si bloccò per un momento "come mai sei nudo?"
Si guardò stupito anche lui.
"Devo aver perso l'asciugamano" rispose "Non riuscivo a dormire, così ho fatto una doccia e poi ho guardato un po' di tele"
"Dai, vieni a letto" disse lei passandogli i pantaloni del pigiama
Improvvisamente, il silenzio della notte fu rotto dall'urlo più agghiacciante che i due avessero mai sentito.




martedì 30 gennaio 2018

La creatura nel buio - Terza parte

Continua con la terza parte il racconto che ho iniziato QUI e proseguito QUI:

Ed si svegliò nel cuore della notte in preda all'agitazione; il suo corpo era madido di sudore, il suo respiro affannose e il battito del cuore era accelerato.
Si voltò a guardare sua moglie che dormiva tranquillamente, la coprì con il lenzuolo, poi si alzo e andò nella camera di Rupert.
Anche suo figlio dormiva pacificamente e dopo avergli accarezzato i capelli andò in bagno.
Aprì il rubinetto dell'acqua calda e si infilò sotto la doccia.
Rimase sotto l'acqua corrente per più di mezz'ora, con lo sguardo perso nel vuoto e cercando di ricordare l'incubo che lo aveva svegliato, ma più si sforzava di ricordare, meno riusciva a darsi una risposta. Eppure qualcosa gli diceva che fosse un ricordo del passato, probabilmente rimosso e che anche le paure del suo bambino ne facessero, in qualche modo, parte.
Uscì dalla doccia annodandosi un asciugamano attorno alla vita, passò una mano sullo specchio reso opaco dal vapore e fissò a lungo la sua immagine riflessa, poi andò in salotto, passando prima dal frigo dove prese una birra fredda.
La corrente era già tornata da qualche tempo, per cui, dopo essersi seduto in poltrona, accese la televisione, sperando di trovare qualcosa di abbastanza noioso che lo facesse crollare dal sonno.
Dopo aver fatto un po' di zapping, Edwin optò per un vecchio film di fantascienza in bianco e nero.
Nel film, il presidente degli Stati Uniti avvertiva la nazione che alcuni dischi volanti erano atterrati in diversi punti della Terra, ma che per ora non si conoscevano le intenzioni degli alieni, per cui per ora ci si sarebbe limitati ad un'azione di controllo. Ed sorrise mentre pensava che quell'attore gli ricordava molto suo zio Dan, poi tutto si fece buio.




"Papà?!"
Nessuna risposta
"Papà!"
Ancora silenzio.
"Mamma, papà, dove siete?"
Un lampo illuminò la cameretta di Ed, che chiamò ancora aiuto, ma le sue grida si persero nel fragore di un tuono.
Ora nella casa si sentiva anche il pianto disperato di un neonato.
Scese dal letto e andò nella camera dei suoi genitori. I piedi nudi lasciavano sul pavimento freddo delle impronte di sudore.
"Papà!?" chiamò un'altra volta Edwin e ancora una volta nessuno gli rispose.
Gli unici rumori che sentiva erano lo scrosciare della pioggia e il fratellino che piangeva.
Quando entrò in camera provò ad accendere la luce, ma la stanza rimase buia.
Ed cercò di avvicinarsi alla culla di suo fratello, quando inciampò in qualcosa e finì a terra battendo la testa contro l'armadio.
Ora il ragazzino era, se possibile, ancora più spaventato; aveva voglia di piangere, ma si fece coraggio e tentò di rialzarsi, ma il piede scivolò ancora una volta, facendolo finire nuovamente col sedere sul pavimento. Questa volta sentì qualcosa di umido e appiccicaticcio bagnargli le natiche e la mano che aveva usato per rimettersi in piedi, ma prima che potesse chiedersi cosa fosse, un lampo illuminò la stanza e se fino a quel momento aveva avuto paura, quello che vide in quell'istante quasi lo fece impazzire.
Ed aprì e chiuse  più volte la bocca, come se tentasse di chiedere aiuto, ma non un riuscì a emettere alcun suono.
La scena gli si presentò solo per pochi secondi, ma era talmente nitida e terribile che lo travolse con la forza di uno tsunami. La "cosa" sulla quale era inciampato era il corpo di suo padre, in parte riverso dentro all'armadio e completamente ricoperto di sangue.  Sangue che ricopriva tutta la camera; le pareti, il soffitto, il lampadario e il letto dove giaceva sua madre con il petto squarciato.
Urlò.
Finalmente il grido che gli era rimasto strozzato in gola uscì con tutta la forza dei suoi piccoli polmoni. Si gettò in lacrime sul corpo di sua madre, chiamandola per nome e sporcandosi il pigiama con il suo sangue.
Improvvisamente Edwin, si ricordò del suo fratellino, il cui pianto lo aveva attirato fino a lì e si girò per cercarlo con lo sguardo.
Ancora una volta, quella notte, il suo cervello dovette fare i conti con qualcosa di spaventoso.
Jack, suo fratello di pochi mesi, stava fluttuando a mezz'aria, volando dentro all'armadio, ma lui aveva l'impressione che in realtà venisse trascinato dentro da una mano invisibile.
Quell'ultima scioccante immagine gli fece perdere i sensi, proprio nel momento in cui la porta d'ingresso veniva sfondata dai vicini allarmati dalle urla. L'ultima cosa che riuscì a vedere prima che tutto diventasse confuso, fu la mano del mostro che per un istante, da invisibile si materializzò per poi sparire all'interno dell'armadio.

mercoledì 6 dicembre 2017

La creatura nel buio - Seconda parte

QUI trovate la prima parte

Passarono il resto della serata giocando tutti e tre assieme, ma per qualche "magico" motivo, il vincitore era sempre Rupert.
Mentre la piccola pendola da tavola, appartenuta alla madre di Shirley, suonò le nove, il bambino faticava a tenere gli occhi aperti e la testa gli oscillava continuamente in avanti, rischiando di picchiarla sul tavolo.
"E' ora di andare a letto" sentenziò lei
A quelle parole Rupert spalancò gli occhi e cominciò a urlare:
"No mamma, ho paura, per favore...ancora un po'..."
Shirley ripensò a suo figlio che spariva nel buio della sua camerette per recuperare il gioco in scatola, ma decise di non dire nulla a tal proposito. Invece lo prese tra le braccia e gli disse:
"Non vedi che stai crollando dal sonno? I bambini della tua età hanno bisogno di molte ore di sonno"
"No, non voglio!" continuò a Rupert scoppiando in un pianto isterico "c'è il mostro dell'armadio...".
"Non c'è nessun mostro..." replicò Shriley
"Va bene, puoi stare alzato ancora dieci minuti" la interruppe Ed
Lei gli lanciò un'occhiataccia; non le piaceva dover far la parte della mamma cattiva e quando Edwin la contrariava così sentiva minata la sua autorità, non che ciò capitasse spesso, anzi, ma la cosa comunque non le andava giù.
Qualcosa nello sguardo di suo marito però la sorprese, tanto da dimenticare subito quella piccola onta; Ed sembrava spaventato.
Lui parve accorgersene e le si avvicinò sussurrandole qualcosa all'orecchio.
Il broncio di Shirley si trasformò in un sorriso; poi sorrise anche lui.

Mezz'ora dopo il bambino non era ancora andato a letto, tuttavia la stanchezza aveva avuto la meglio su di lui e si era addormentato sul divano, incurante dei tuoni che facevano tremare i vetri delle finestre. Edwin lo prese delicatamente in braccio e guardando la moglie le disse:
"Arrivo subito, aspettami di là".  Poi portò il figlio nella sua cameretta, lo spogliò, gli mise il pigiama e lo infilò sotto le coperte.
Dopo averlo baciato sulla fronte se ne andò, ma si bloccò sull'uscio. Si guardò indietro e vide che alcune ante dell'armadio erano aperte, tornò sui suoi passi e le chiuse, poi andò da sua moglie.


Si sedettero sul letto e cominciarono entrambi a spogliarsi vicendevolmente; lui le tolse la camicetta, scoprendole i bianchi seni che accarezzò con dolcezza e baciò con passione mordicchiandole i rosei capezzoli. Lei gli sfilò la t-shirt e gli passò le mani sul petto liscio e ben definito, passando per i fianchi e arrivando al ventre piatto, qui lei gli passò la lingua attorno all'ombelico, mentre gli sbottonava i jeans, quindi gli afferrò il membro assaporandolo prima con le labbra e poi la lingua e il palato. Edwin lasciò che lei continuasse ancora un po'. poi con forza la scaraventò supina sul letto, con un solo colpo le tolse pantaloncini e slip e ricambiò l'appagamento appena ricevuto.
Continuarono a far l'amore per molto tempo, mentre il temporale, che non accennava a smettere, copriva i loro gemiti di piacere.

giovedì 26 ottobre 2017

La creatura nel buio - Prima parte

(Ho ritrovato questo racconto, risalente a vent'anni fa, in un vecchio quaderno. Dopo averlo riletto ho pensato di riproporlo, a puntate,  cercando di aggiustare le parti meno riuscite e adattarlo al mio attuale stile narrativo. Certo potrà risultare ancora un po' imperfetto, ma non volevo stravolgerlo del tutto, per cui certe ingenuità dell'epoca si noteranno. Buona lettura)



Il temporale durava da quasi due ore e da qualche minuto mancava la corrente. La casa era completamente buia, così Edwin si muoveva lentamente, accanto alle pareti, allungando attentamente le mani per ripararsi da eventuali ostacoli (è vero, era casa sua, ma sfido chiunque a girare pere casa propria senza vedere nulla; se non ci si aiuta con le mani si rischia di ritrovarsi con qualche livido indesiderato).
Arrivò, con un po' di fortuna, alla scrivania dello studio, aprì il terzo cassetto e ne tirò fuori una torcia elettrica. Spinse il pulsante, ma la stanza rimase buia.
"Cazzo..." sibilò tra i denti "le batterie..."
Svitò il tappo sul retro e girò la torcia verso il basso; tre grosse batterie, ormai scariche, caddero sul pavimento, che Edwin gettò nel cassetto assieme alla pila.
"Papà ho paura!" urlò una piccola voce
"Stai tranquillo Rupert , ho quasi fatto" rispose di rimando Ed "Non c'è nulla di cui aver paura"
Bugia! Appena quelle parole gli uscirono di bocca sentì che erano false, ma certo non poteva dire a suo figlio che anche lui era spaventato. Ed era consapevole di quanto fosse assurda e irrazionale questa cosa, dato che era un uomo adulto, ma non poteva farci nulla, se non mostrarsi il più tranquillo possibile.
Improvvisamente gli tornò in mente la battuta di un vecchio film horror: "Non ho paura del buio, ho paura di quello che c'è dentro al buio".
Rabbrividì e una specie di déjà vu gli attraversò rapidamente il cervello, come un ricordo che non vuole affiorare.
"Tutto bene caro?" la voce di Shirley era ferma e rassicurante
"Si...sto cercando le candele.."
"Sono nella scatola nello sgabuzzino all'ingresso"
Edwin recuperò le candele con non poca fatica accendendole con l'accendino che aveva nella tasca dei jeans e tornò subito in salotto, dove la sua famiglia lo stava aspettando.
Shirely e Rupert erano accoccolati assieme sul divano con il bambino che teneva la testa appoggiata al ventre materno e si succhiava il pollice della mano destra, mentre la donna gli accarezzava amorevolmente i capelli.
"Eccomi" disse Ed facendo il suo ingresso nella stanza
Appena lo vide, il figlio gli corse incontro e gli si avvinghiò alle gambe, facendogli quasi perdere l'equilibrio.
"Hai avuto tanta paura?" gli chiese prendendolo in braccio
"No, solo un po'" mentì il bambino asciugandosi una lacrima che gli scendeva sul volto
"Ti va di fare un gioco prima di andare a dormire?"
Il viso di Rupert si illuminò.
"Posso scegliere quello che voglio?"
"Certo!" gli rispose il padre
"Il castello incantato!" urlò il bambino prima di sparire nel buio della sua cameretta e facendo ritorno, qualche minuto, dopo con una grossa scatola tra le mani.
Edwin e Shirley si guardarono stupiti per un attimo, ma nessuno dei due pensò per un solo istante di chiedere al figlio che fine avessero fatto tutte le sue paure.
I due genitori si sorrisero.

giovedì 7 settembre 2017

Blu

Ancora un vecchio racconto (questo fa parte di un ideale trittico assieme ai racconti "Bianco" e "Rosso" a cui ho cambiato il finale...giusto per...Beh prima leggetelo e poi ditemi cosa ne pensate...


Da quanto tempo stava vagando in quella infinita distesa blu? Sei giorni? Forse sette… Oramai aveva perso il conto… Il sole alto nel cielo gli stava bruciando la pelle e facendo salire la febbre. Per quanto attento fosse stato, ormai le poche razioni di cibo e acqua che gli avevano lasciato, prima di abbandonarlo in mezzo all’oceano, dopo che lo avevano trovato nascosto nella stiva, stavano per finire e il processo di disidratazione era già iniziato da qualche giorno. Quanto avrebbe potuto resistere in quelle condizioni? Due giorni, forse tre se era fortunato. Ma data la situazione era chiaro che la fortuna lo aveva abbandonato già da un pezzo.
Si alzò a sedere e si guardò stancamente attorno . Sperava di poter scorgere il profilo di qualche terra, o la silhouette di una nave; al momento si sarebbe accontentato di vedere l’avvicinarsi di qualche nuvola carica di pioggia, ma attorno a lui si vedeva solo l’azzurro del cielo e il blu del mare.
Prese lo zaino che conteneva il cibo e ne tirò fuori l’ultimo pezzo di cioccolata. Rimase qualche istante a fissarla chiedendosi se fosse il caso di conservarla  per un momento di maggiore necessità, ma  rendendosi conto dell’assurdità di quel pensiero, cominciò a ridere debolmente e poi a tossire sempre più violentemente. Quando la tosse si calmò, divorò avidamente quell’ultimo residuo di cibo; almeno se fosse morto, lo avrebbe fatto con un sapore dolce in bocca…
Ormai convinto che sarebbe morto di sete ancor prima che di fame, pensò di provare a ispezionare meglio lo zaino e in una tasca all’interno, trovò un lungo pezzo di corda, un coltello e un accendino. Bene, pensò, forse la sorte stava cominciando a sorridergli, allora con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a far bollire dell’acqua per renderla potabile e con il coltello avrebbe potuto pescare qualche piccolo pesce. Ritemprato da questo pensiero ,decise di provare subito a catturare qualche preda; si legò un capo della corda ad una caviglia e l’altro lo legò al maniglione a poppa della scialuppa, quindi si tuffò in acqua.
Man mano che scendeva il blu del mare diventava sempre più scuro, poi ad un certo punto sentì una fitta alla caviglia e capì di essere arrivato al limite che la corda gli consentisse di arrivare, la visibilità sott’acqua era ancora abbastanza buona, ma decise comunque di risalire qualche metro per poter scorgere meglio le sue prede. E fu proprio mentre risaliva che vide quel grosso pesce che nuotava poco sotto la sua barca. Non sapeva che tipo di pesce fosse, ne tantomeno se  fosse velenoso, ma ormai la cosa aveva poca importanza, per cui non si pose nemmeno la questione e gli si lanciò incontro con il coltello sguainato.
Al  primo affondo procurò al pesce una lunga ferita sul lato sinistro, dall’occhio fino alla pinna caudale, ma l’animale, anziché arrendersi cominciò prima a dibattersi con forza, poi a scendere rapidamente sempre più in profondità  rendendo vano ogni tentativo di catturarlo.
Ormai sentiva il fiato venirgli meno, per cui decise di lasciar pesce e di tornare in superficie a recuperare qualche boccata d’aria. Era quasi arrivato, quando sentì un dolore così lancinante che credeva non avrebbe mai potuto provare. Un enorme squalo, probabilmente attirato dal sangue del pesce che aveva ferito, gli aveva addentato la caviglia legata alla corda, staccandogli di netto il piede che ora spuntava dalle mascelle ghignanti del pescecane. Con i polmoni che gli stavano per esplodere, la gamba che gli faceva un male atroce e il moncherino che sanguinava copiosamente, cercò di nuotare più rapidamente possibile verso la superficie,  per fuggire al temibile predatore.
 Fortunatamente riuscì a salire sulla scialuppa prima che lo squalo tentasse un nuovo attacco, cadendo immediatamente svenuto; quando riprese conoscenza si sentì ancora più debole e non gli ci volle molto a capire il perché:  tutta la prua era sporca del suo stesso sangue che continuava a uscirgli dalla caviglia mozzata e per fortuna che l’acqua salata aveva in parte rallentato la perdita di sangue, tuttavia non poteva  certo sperare di fermare l’emorragia sono con l’acqua marina. Avvolse la t-shirt attorno al moncherino  e strinse un pezzo di corda attorno alla caviglia per rallentare la circolazione, ma anche così non poteva sperare di sopravvivere a lungo. La soluzione era una sola e lui lo sapeva benissimo.
Con lo stomaco che gli si stava rivoltando, recuperò l’accendino dallo zaino e iniziò a scaldare la lama del coltello. L’operazione richiese quasi una decina di minuti, poiché la fiamma era piccola, ma poi l’arma era sufficientemente calda per portare a termine il lavoro che si era proposto. Quando affondò la lama sulle morbide carni della ferita, il mondo cominciò nuovamente a vorticare e solo grazie alla sua infinita voglia di sopravvivere, riuscì a non svenire e a finire la dolorosa operazione, dopodiché scivolò in un sonno profondo.
Si risvegliò ai primi morsi della fame, confuso, non rendendosi ben conto di dove si trovasse; e quando finalmente ricordò dove si trovava e qual era la sua situazione, inizio a piangere sommessamente.
Allora, ricordò un racconto che aveva letto qualche anno prima, L’arte di sopravvivere, di Stephen King, in cui un uomo, naufragato su un isolotto, nel profondo blu dell’oceano Pacifico, si trovava presto senza cibo e pur di sopravvivere si amputava, un po’ alla volta, gli arti inferiori per cibarsene.
Guardò il moncherino dolorante e si chiese se anche lui avrebbe trovato il coraggio di fare una cosa simile, ma al solo pensiero sentì lo stomaco rivoltarsi, ma riuscì solo a rigurgitare aria.
Gettò il coltello in acqua e si lasciò scivolare nuovamente sul fondo della scialuppa, ormai totalmente privo di forze e rassegnato a morire, ma fu proprio allora, mentre il blu del mare si confondeva con l’azzurro del cielo, prima che tutto diventasse un unico indistinto grigio, che qualcosa, nel cielo, gli fece tornare una flebile speranza. A qualche metro sopra la sua testa c'era un gabbiano che girava in tondo, come fosse alla ricerca di cibo.
Rincuorato da quella visione, convinto di essere vicino alla terra ferma, o quanto meno ad una grossa nave, scivolò serenamente in un profondo sonno, solo un istante prima di potersi accorgere che anche quel gabbiano era venuto lì per morire da solo.

lunedì 28 agosto 2017

La donna sulla Punto rossa



Ancora un vecchio racconto:

Al ritorno da una serata passata in compagnia, un tale che stava guidando su una strada secondaria, quando nota sul ciglio della strada una bella ragazza che faceva l’autostop. Dopo un attimo di esitazione decide comunque di fermarsi e di darle un passaggio.
Durante il tragitto la ragazza si dimostra simpatica e loquace, così i due chiacchierano molto.
Ad un certo punto lei dice di aver freddo, così l’uomo le presta la sua giacca.
Dopo qualche chilometro la ragazza si fa lasciare nei pressi di una casa isolata, e dopo aver salutato se ne va. A questo punto lui si accorge che la giovane ha tenuto con se la sua giacca, ma decide di tornare a prenderla il giorno seguente, così avrebbe avuto una scusa per rivedere la bella autopista.
Il giorno dopo tornò dunque a casa della ragazza e quando suonò alla porta, ad aprirgli venne un anziana signora. Lui disse di essere venuto a riprendersi la giacca che aveva prestato la sera precedente alla figlia. La signora disse che non era possibile poiché la figlia era morta da cinque anni. Il ragazzo sbigottito si fece indicare dov’era sepolta la ragazza. Quando arrivò alla tomba, il ragazzo si bloccò impietrito, la foto sulla lapide era proprio della giovane alla quale aveva dato un passaggio la notte prima, ma ciò che gli fece gelare il sangue nelle vene fu un’altra cosa.
Appoggiata sulla lastra tombale c’era la sua giacca a cui era stato appuntato un biglietto che diceva: “GRAZIE”

Questa è una delle leggende metropolitane più diffuse in assoluto, che credo ognuno di noi si sia sentito raccontare o abbia raccontato almeno una volta in vita sua, magari con qualche piccola differenza, ma i cui punti fondamentali rimangono gli stessi. E così l’ho sempre presa io; come una storia da narrare durante una serata passata tra amici, per spaventare le ragazze con la scusa poi di abbracciarle voluttuosamente, quando queste ci sarebbero saltate addosso impaurite.
Mi sbagliavo. Ora, dopo quanto mi è accaduto non più di due mesi fa, credo che certe storie non siano semplicemente veritiere, ma reali; fatti veri accaduti realmente.

Tutto ha avuto inizio lo scorso 17 agosto. Quella mattina ero stato nel nuovo appartamento, dove mi sono poi trasferito con Giulia, per controllare che i lavori proseguissero regolarmente secondo gli accordi presi col costruttore. L’appartamento si trova a meno di un chilometro dalla casa dei miei genitori, in un quartiere  costituito da un'unica via, che a ferro di cavallo, gira attorno ad un piccolo nucleo di palazzine e case a schiera.
Avendo ancora alcune cose da sistemare, a mezzogiorno mi preparai un paio di panini, tirai fuori l’unica una birra che avevo in un frigo ancora vuoto, e mi sedetti in terrazza a consumare il mio frugale pranzo. Il sole picchiava con forza, in un cielo sgombro da nuvole, sul quartiere silenzioso.
In quel momento, soltanto una mezza dozzina tra appartamenti e villette erano abitati, mentre altrettante abitazioni si sarebbero riempite da li a poco, quando i padroni di casa sarebbero tornati dalle ferie. La maggior parte degli edifici era dunque vuota e così, in quel primo pomeriggio di un giorno di metà agosto, l’unico rumore che si poteva udire in tutto il quartiere era la voce della giornalista televisiva, proveniente da una finestra aperta in qualche angolo nascosto.
Tutta quella quiete, insieme allo stomaco sufficientemente sazio, mi fecero cadere in un breve, seppur profondo, stato di sonno.
Quando mi risvegliai erano quasi le due; il sole continuava imperterrito a soffocare l’aria e la gola mi bruciava come se avessi inghiottito dei pezzi di vetro. La poca birra rimasta nella bottiglia era ormai imbevibile, per cui mi decisi a finire gli ultimi lavori per poi andare al Feeling a farmi un paio di spritz.
Salii in auto e accesi immediatamente l’aria condizionata per far fronte alla pesante cappa di caldo che si era formata all’interno dell’abitacolo.
Lasciando la via, con un gesto della mano salutai alcuni ragazzini, scesi in strada a giocare a rincorrersi con i gavettoni, quindi svoltai a sinistra per uscire dal quartiere e mi accodai ad una Punto rossa ferma allo stop.
La strada era completamente deserta, ma l’auto di fronte a me non accennava a sgombrare l’incrocio; stavo per suonare un colpo di clacson, quando dal finestrino del conducente sbucò una mano femminile che mi fece cenno di affiancarmi.
Alla guida c’era una signora di circa quarant’anni; i capelli biondi e cortissimi le conferivano un aspetto quasi androgino, mentre gli occhi erano nascosti da un paio di scuri occhiali da sole.
“Ha bisogno di aiuto?” le chiesi abbassando il finestrino dal lato del passeggero.
Lei si tolse gli occhiali e mi sorrise imbarazzata.
“Veramente si” rispose “sto cercando una vecchia villa con un grande cancello in ferro…”  e dopo aver riflettuto un attimo continuò “mi hanno detto che è in Via delle Camelie.”
Capii subito di quale abitazione stava parlando; ad un paio di chilometri da li, lungo una strada non asfaltata che passava tra i campi dei contadini locali e che andava a perdersi nei pressi di un faggeto, si ergeva un’antica villa dal giardino enorme, ricco di altissimi alberi e al cui ingresso, a renderla ancora più misteriosa, c’era un imponente cancello in ferro battuto.
“Si ho capito, se vuole le faccio strada io” proposi alla donna.
“Sarebbe molto gentile da parte sua.” rispose lei mentre tornava ad indossare gli occhiali.
Le feci dunque segno di seguirmi e girai a sinistra per avviarmi verso la strada principale, ma quando osservai dallo specchietto retrovisore, mi accorsi che la signora non mi stava seguendo. Accostai sul lato della strada, pensando che forse stava sistemando alcune cose in auto, ma dopo alcuni minuti ancora non si vedeva nessuno. Feci una veloce retromarcia fino all’incrocio, ma incredibilmente lo trovai deserto. Inizialmente considerai che forse mi aveva voluto fare uno scherzo, ma scartai subito quell’ipotesi, soprattutto perché non c’era assolutamente nulla di comico in uno scherzo così. Pensai, allora, che forse aveva fatto il giro del quartiere per uscire in fondo alla strada, anche se la cosa sarebbe stata, quanto meno insensata. Perché fare inversione, tornare indietro e venir fuori qualche centinaio di metri più avanti, quando uscendo da quell’incrocio avrebbe risparmiato tempo e le energie di una manovra inutile? Decisi comunque di controllare e feci il giro in direzione opposta in maniera da venirle incontro, in caso avesse deciso di fare quell’assurda manovra, ma non trovai traccia della signora bionda, ne della sua Punto rossa.
Cominciai a provare una  sorta di disagio; in quella situazione c’era qualcosa di assolutamente sbagliato. Da quando mi ero offerto di accompagnarla erano passati meno di cinque minuti, dunque anche prendendo per buona la teoria dello scherzo,  non avrebbe avuto il tempo di nascondersi da nessuna parte, anche perché, come ho già detto, in quel quartiere non c’erano stradine secondarie o laterali, ma un'unica via a ferro di cavallo. Feci un’altra volta il giro, per accertarmi di non essermi sbagliato, magari avevo incrociato l’auto senza accorgermene, ma anche questa volta non ebbi maggior fortuna. Provai a chiedere ai ragazzini che stavano giocando per strada se avessero visto qualcosa, ma mi risposero che  non avevano visto passare nessun’auto a parte la mia.
A quel punto un brivido mi percorse la spina dorsale. Semplicemente la donna nella Punto rossa era svanita nel nulla; o forse non c’era mai stata…
Continuai a rimuginare su quella storia per tutto il resto del pomeriggio, tuttavia quella sera a cena con tutta la compagnia, non volevo che gli altri si preoccupassero per me, per cui cercai di comportarmi come al solito. Poi Alberto raccontò la sua storia e tutto cambiò.
“L’altro giorno mi è capitato un fatto stranissimo” esordì “stavo tornado dalla palestra, ed ero nei pressi del quartiere dove Matteo e Giulia si stanno costruendo l’appartamento. Sul lato della strada ho notato una bella donna su una Punto rossa che sembrava in difficoltà. Le ho chiesto se potevo esserle d’aiuto e lei mi ha chiesto indicazioni per la vecchia villa vicina al bosco di faggi. Le ho spiegato come arrivarci e l’ho salutata, ma appena ripartito mi sono reso conto che avevo sbagliato nel spiegarle la strada, allora mi sono fermato…”
“Ma quando ti sei voltato per richiamarla lei era sparita nel nulla” intervenni io “era sparita nel nulla nonostante non avesse avuto il tempo di allontanarsi”
“Esatto, ma tu come fai a….che c’è Matteo?”
Si voltarono tutti a guardarmi, ero improvvisamente impallidito e stavo vistosamente tremando.
“L’ho vista anch’io” affermai
Raccontai così quello che mi era accaduto quel pomeriggio e quando finii sulla tavola era calato un pesante silenzio. Nessuno sapeva cosa dire, fino a quando anche Patrizia disse:
“L’ha vista anche mia zia, e so che anche altra gente racconta di aver parlato con una donna bionda alla guida di una Punto rossa che sparisce all’improvviso”
In quel momento presi la decisione che avrei scoperto chi era quella donna, altrimenti avrei rischiato di ammalarmi.
Domandai un po’ di giro, ma senza ottenere nessuna informazione utile per far luce su quel mistero.
La cosa sicura ormai, è che avevo a che fare con un fantasma o qualcosa di simile, ma anche se qualcuno affermava di aver visto qualcosa di strano, nessuno aveva idea di chi potesse essere quella donna.
Alla fine le mie ricerche mi portarono alla vecchia villa, di cui la donna chiedeva sempre informazioni. Suonai al campanello dell’imponente cancellata e dalla dependance, adibita ad alloggio per il personale, venne ad aprirmi quello che doveva essere il maggiordomo.
“Si, prego?” chiese
Senza entrare troppo nei dettagli, gli dissi che stavo cercando una ragazza bionda di cui ignoravo il nome, ma che sapevo guidasse una Punto rossa e che l’ultima volta che avevo visto era diretta proprio in quella casa.
“Mi spiace, non ne so nulla” rispose lui gentilmente
“Potrei chiedere al padrone di casa?” insistetti
Il maggiordomo, si portò la mano al mento e fece roteare un paio di volte gli occhi, come a valutare la mia richiesta.
“D’accordo…” acconsentì alla fine
L’uomo mi accompagnò in casa  e mi fece accomodare in un salottino.
“Attenda qui un attimo”mi disse
Dopo qualche minuto mi venne ad accogliere un uomo anziano, di circa ottant’anni, alto e allampanato, camminava lento, trascinandosi dietro ad un grosso bastone da passeggio.
I capelli bianchi che gli scendevano lunghi fin oltre le spalle, gli incorniciavano un volto incredibilmente magro e spigoloso.
“Buongiorno, mi chiamo Matteo Zanardi” mi presentai
“Valerio Spada” rispose l’uomo guardandomi da sopra gli occhiali
Fui sorpreso dalla forza con la quale mi strinse la mano; non mi sarei mai aspettato tanta energia in braccia tanto esili.
“Cosa vuole esattamente da me?” chiese seccamente
Riferii al vecchio la stessa storia che avevo già raccontato al suo maggiordomo, ma questi mi interruppe con un gesto brusco della mano.
“Lei non può voler parlare con quella donna, mi dica cos’è venuto a fare qui”
“Perché, secondo lei, mi sarei inventato tutta questa storia?”
“Perché quella donna è un fantasma, almeno per quanto mi riguarda…”
Capii in quel momento che quell’uomo sapeva più di quanto sospettassi, decisi dunque di essere sincero fino in fondo, anche a costo che mi prendesse per pazzo. Gli raccontai, dunque, di quando incontrai la donna misteriosa e di come rimasi sconvolto quando mi accorsi che era sparita nel nulla; gli riferii che anche altra gente l’aveva vista e che se non avessi trovato soluzione a quel mistero non avrei più avuto pace.
Dopo aver ascoltato silenziosamente la mia storia il signor Spada trasse un profondo respiro, poi si avvicinò al tavolino e dal cassetto ne estrasse un oggetto che immediatamente mi porse.
Era una fotografia sulla quale era raffigurata la donna bionda affianco ad ragazzo dai capelli scuri, di qualche anno più giovane di lei.
“…è lei…” borbottai io
Invece di rispondermi il signor Spada cominciò a raccontare:
“Dieci anni fa, mio figlio Davide conobbe questa donna. Si chiamava Alice. Lei era più grande di lui di quasi dieci anni, ma si volevano comunque molto bene; almeno all’inizio. Per un breve periodo andarono a convivere, avevano anche fissato la data delle nozze, ma poi successe qualcosa. Davide cominciò a frequentare brutte compagnie, non so dove avesse conosciuto queste persone, ma fu spesso invischiato in storie di droga e sesso, e solo grazie alle mie conoscenze sono riuscito a non farlo finire in prigione. Dopo solo tre mesi che si erano conosciuti, Davide lasciò Alice e abbandonò il loro appartamento, andando a vivere a casa di uno dei suoi nuovi amici. Proprio in quel periodo Alice scoprì di essere incinta, per cui chiese a mio figlio di darle un aiuto economico per la crescita del figlio. Lui si rifiutò e le disse di non farsi più vedere altrimenti l’avrebbe ammazzata. Per un po’ lei se ne restò tranquilla, ma dopo un paio di settimane mi telefonò e mi disse che se non l’avessi aiutata avrebbe fatto condannare Davide, che aveva tra le mani delle prove che lo incriminavano e stavolta non avrei potuto far nulla per tenerlo fuori da questa vicenda.
Accettai di incontrarla con la speranza di giungere ad un compromesso e le diedi appuntamento qui da me; ma non sapevo che Davide aveva ascoltato quella telefonata.
Due giorni dopo Alice fu trovata all’interno della sua auto, una Punto rossa, in campo poco distante di qui, proprio dove ora c’è il quartiere dove lei, Matteo, ha comprato casa, ammazzata da un colpo di pistola alla testa. Il colpevole non fu mai trovato, ma un giorno, forse in un momento di rimorso, Davide ammise di essere stato lui, anche se poi negò la confessione.
Non ho mai trovato il coraggio di denunciare mio figlio, ma poi ci pensò il destino a rimediare.
Cinque anni fa il suo corpo fu ritrovato nell’appartamento che aveva per pochi mesi condiviso con Alice. Morì di overdose.
Quando lo seppellii sperai di seppellire con lui anche questa brutta storia, ma a quanto pare certi segreti non sono destinati a rimanere tali…”
Rimasi silenziosamente ad ascoltare il racconto di quel vecchio, poi mi alzai e strappai la foto che avevo ancora in mano.
Il signor Spada mi guardò stupito, poi capì e sorrise.
Lasciai quella casa e i misteri che la riguardavano, deciso a mettere la  parola fine su quella storia.

Da quel giorno non ho più rivisto Alice, ne la sua auto e per quanto ne so, nessun altro l’ho più rivista. 

lunedì 31 luglio 2017

Nuoce gravemente alla salute


Alfio rideva mentre Sandro gli raccontava di quel corso motivazionale per smettere di fumare che aveva fatto l’inverno prima.
Erano sotto la tettoia dell’Irish Pub per ripararsi dalla leggera, ma fastidiosa pioggerella; entrambi con una Marlboro tra le labbra e una Tennent’s in mano.
“Non è servita ad un cazzo” ribadì sprezzante, l’amico “duemila euro buttati in fumo… letteralmente”
“Te l’avevo detto io” lo riprese Alfio
“Si, si…”
“E poi non capisco questa cosa che vuoi smettere di fumare…”
“Faccio sempre più fatica a fare le scale di casa, ho l’alito che definire pesante è un eufemismo e la pelle che puzza peggio di un posacenere… dai lo sanno anche i bambini che fumare fa male” rispose Sandro
“Palle!” lo interruppe Alfio “si, forse per la puzza hai ragione, ma per il resto sono tutte storie inventate dai non-fumatori e dai salutisti per romperci i coglioni”
Schiacciò la sigaretta nell’apposito contenitore colmo di sabbia, in mezzo a decine di altre cicche e subito se ne accese un’altra.
“Mio nonno ha fumato tutta la vita” continuò Alfio “è morto ad ottantotto anni cadendo dal tetto di casa mentre ripuliva la grondaia. Mio papà ha iniziato a fumare durante il servizio militare, ma tutte le domeniche si fa venti chilometri di corsa, senza problemi. Io ho iniziato a dodici anni, da quando ne ho diciassette  fumo un pacchetto al giorno e non ho mai avuto nessun fastidio”
Fece tutto quel discorso parlando più a se stesso che all’amico, che continuava ad ascoltarlo sorseggiando la sua birra, quasi a voler giustificare un vizio che sapeva comunque essere sbagliato.
“Ce ne facciamo un’altra?” chiese Sandro indicando la bottiglia vuota.
Alfio lo fissò confuso, ancora preso dai suoi pensieri. Poi, appena si schiarì le idee rispose:
“No è meglio di no, ho già bevuto troppo”
“Allora non sei così scapestrato come vuoi far sembrare” lo prese in giro l’amico
Entrambi risero a quella battuta, prima di salutarsi.
“Ci vediamo domani in pizzeria. Buonanotte”
“Buonanotte”
Mentre attraversava la strada, Alfio si esaminò le tasche in cerca delle chiavi dell’auto. Le trovò nella tasca anteriore dei pantaloni, ma estraendole fece cadere il pacchetto stropicciato con le ultime due sigarette.

Si accucciò per raccoglierlo e ancora una volta lesse quella dicitura che tanto odiava: NUOCE  GRAVEMENTE ALLA SALUTE. Quando, rialzandosi, si accorse dei fari della macchina in arrivo fu troppo tardi.





giovedì 20 luglio 2017

Visita all'inferno


Ripropongo un vecchio racconto, ancora un po' ingenuo in alcuni passaggi, soprattutto per il finale frettoloso, ma tutto sommato ne sono abbastanza soddisfatto...e prima di ricevere critiche ingiuriose, si ho avuto ispirazioni dylandoghiane...



Fausto Bonavita era stato mandato al diavolo diverse volte, ma non aveva mai pensato che un giorno ci sarebbe potuto finire realmente.
Tutto ebbe inizio quando Lubrano Saverio, un importante cliente della Hoffman Travel, la ditta per la quale lavorava Fausto, morì d’infarto durante una partita di squash. Qualche giorno dopo, una delle segretarie si accorse che mancava una firma su uno dei documenti che avrebbero permesso all’azienda di incassare svariati milioni di euro.
Fatto sta che la firma mancante fosse proprio quella del signor Lubrano, e poiché era lui che seguiva questo cliente, Fausto fu accusato della grave perdita.
“…o mi porta quella firma o si può considerare licenziato” tuonò il direttore
“Ma è impossibile, il signor Lubrano è morto…”
“Sono affari suoi e le va bene che non posso chiederle i danni per inefficienza”
Fausto uscì dall’ufficio con il morale sotto i tacchi senza mai staccare gli occhi dalla punta delle sue scarpe, eppure sentiva lo sguardo dei colleghi pesare su di lui.
Rimase due giorni a letto non sapendo come risolvere il suo problema; poi preso dalla disperazione decise che sarebbe andato nell’aldilà per far firmare il documento al suo cliente. Si recò da un celebre chiromante che scoprì che Lubrano Saverio era finito all’inferno, e grazie all’aiuto di un buon diavolo ottenne un lasciapassare per una giornata.
Il giorno seguente scese di buon’ora fino alle sponde dello Stige e si meravigliò di trovarlo ricco di pesci di ogni sorta. Un’enorme fuoribordo era ormeggiato lungo la riva destra del fiume e sul ponte di comando un uomo vestito di tutto punto sorseggiava pacificamente un whisky on the rocks. Quando lo vide arrivare, l’uomo saltò giù dall’imbarcazione e porgendogli la mano lo salutò calorosamente:
“Il signor Bonavita suppongo”
“Si, sono io…” balbettò Fausto
“Piacere, Caronte” ribadì il diavolo “Potrebbe per cortesia mostrarmi il lasciapassare, sa com’è, non si è mai troppo sicuri nella vita”
Sempre più confuso Faustò tirò fuori il documento dal portafoglio e lo porse a Caronte.
“Bene, possiamo andare” disse questi salendo a bordo.
Durante la navigazione Fausto notò che lungo le sponde dello Stige la vegetazione cresceva rigogliosa e che centinaia di animali vagavano in piena libertà.
“Non è poi così brutto come lo si dipinge, vero?” gli chiese Caronte che aveva notato la sua perplessità. Lui scosse la stessa e continuò a guardarsi attorno; in lontananza si vedeva sorgere una città e, almeno da quella distanza, non sembrava molto diversa da quelle che lui conosceva.
Poco dopo attraccarono al molo, dove ad attendere Fausto c’era un giovane alto coi capelli ben pettinati, seduto all’interno di una fiammante Lamborghini Diablo.
“Questo è Belfagor, sarà lui ad accompagnarti ora” disse Caronte indicando il collega “Ora io devo andare, ho appuntamento con un certo Dante” strinse energicamente la mano al mortale e ripartì sul suo fuoribordo.
Fausto salì sulla lussuosa auto sportiva da dove Belfagor lo stava osservando impaziente; non aveva ancora chiuso del tutto la portiera, che il diavolo partì a razzo inchiodandolo allo schienale.
Anche ora Fausto continuò a guardarsi attorno: strade, palazzi, negozi, bar, centri commerciali brulicanti di persone, tutto sembrava come se fosse ancora nel mondo dei vivi.
“Credevo fosse diverso” disse rivoltò alla sua guida
“Cosa…?”
“L’inferno, dico, credevo fosse diverso”
Belfagor esplose in una fragorosa risata: “Scommetto che credevi di trovare un luogo arido e deserto con lingue di fuoco che escono da baratri o profondi crepacci in cui i dannati vengono infilzati coi forconi da esseri dalle sembianze caprine…”
“Si, qualcosa di simile” ammise Fausto
“No, quella è roba antica, andava bene nel medioevo, ora ci siamo modernizzati pure noi. Anche questo che vedi, non è il nostro vero aspetto, ma in un periodo in cui ciò che conta sono la superficialità e l’apparenza, abbiamo deciso di adattarci ai tempi, inoltre se ci avessi visto nella nostra vera forma saresti sicuramente impazzito.”
“Ma le punizioni…?” chiese curioso l’uomo
“Oh, quelle sono rimaste, ma come tutto il resto ha subito qualche cambiamento, diciamo che ora sono più personalizzate”
L’auto accostò lungo il marciapiede:
“Vieni ti mostro qualcosa prima di proseguire” lo invitò il diavolo “Lo vedi quello?” chiese indicando un barbone.
Fausto annuì.
“Ebbene quella persona in vita ha sottratto denaro dall’azienda in cui era direttore e ha accusato del furto alcuni impiegati che sono stati licenziati, così mentre lui si arricchiva sempre di più, molta povera gente è finita sul lastrico. Ora qui continuerà a patire la fame per l’eternità subendo umiliazioni di ogni genere.”
I due entrarono poi in quello che sembrava un ufficio statale, dove un uomo stava correndo tutto trafelato da uno sportello ad un altro.
“E lui?” chiese Fausto
“Lui è stato un assenteista cronico, ora è costretto a girare di ufficio in ufficio inutilmente, senza venire a capo del suo problema.”
Usciti dall’edificio si diressero verso il parco; lì Belfagor gli mostrò un uomo in ginocchio accanto ad una fontanella. “Quest’uomo amava molto bere, e spesso si metteva al volante completamente ubriaco, l’ultima volta gli è stata fatale. Nell’incidente che lo ha portato qui, ha ucciso un’intera famiglia. Ora dovrà soffrire la sete in eterno e appena si avvicina a qualsiasi cosa possa dargli sollievo, questa si asciuga del tutto, fosse anche soltanto una fontanella di acqua”
Il cammino lì portò poi sino ad una lussuosissima villa.
“Qui c’è la persona che cerchi” disse Belfagor “Lui è uno dei peggiori. Quand’era in vita era un pedofilo e ora viene ripagato con la stessa moneta: i diavoli più lussuriosi dell’inferno lo usano per i loro piaceri più libidinosi”
Fausto si sentì improvvisamente nauseato; vedere tutti quegli uomini che da vivi erano stati la feccia dell’umanità lo disgustava, e anche se sapeva che ora stavano soffrendo, la cosa non lo consolava affatto. Tirò fuori il documento che avrebbe dovuto far firmare al signor Lubrano e lo strappò, poi rivolgendosi a Belfagor gli disse:
“Ora vorrei tornare a casa.”

Il diavolo gli sorrise e assieme si avviarono verso i cancelli infernali. 

giovedì 16 febbraio 2017

L'identità del lupo

Ecco un altro vecchio racconto, forse non tra i migliori che abbia scritto, ma con qualche buon passaggio:

Aaron scoprì quella notte cosa significasse realmente avere paura; fino ad allora nemmeno il suo incubo peggiore era stato tanto terrificante.
Rinchiuso nell’armadio a muro, abbracciato al fucile da caccia che era appartenuto a suo padre, il suo respiro si era fatto affannoso, mentre grossi rivoli di sudore gli solcavano il volto.
Fuori la bestia fiutava l’aria, fiutava la sua paura. Presto lo avrebbe trovato, e allora lui avrebbe dovuto ammazzarla, ma come poteva sparare a Mark, come poteva uccidere un bambino?

Aaron si era trasferito ad Howling Rock da poco più di un mese, trovando subito lavoro nella locale scuola media, come insegnante d’Inglese, e per arrotondare lo stipendio dava ripetizioni privatamente. Proprio quella sera stava ripassando la lezione con il piccolo Mark Grimm, un suo allievo della prima media.
Mentre il bambino stava riordinando la cartella per tornare a casa, Aaron scostò le tende guardando dalla finestra.
La luna era già alta in cielo e in quella limpida serata di principio d’autunno sembrava ancora più grande e luminosa.
“E’ proprio una bella serata, vero signor Levi?” chiese improvvisamente il ragazzino.
“Si hai  proprio ragione Mark”
“Lei conosce la storia del mostro di Howling Rock?”
Aaron si voltò a guardare il suo piccolo interlocutore.
“Si ne ho sentito parlare, ma è solo una leggenda.”
“E se non fosse così?” chiese nuovamente Mark.
Ora c’era qualcosa di strano nel volto del bambino, qualcosa di sbagliato. Il suo sguardo era triste e impaurito allo stesso tempo.
“Cosa succede Mark” chiese Aaron “c’è qualcosa che non va?”
“Mi dispiace…” rispose il ragazzino
Poi, portatosi le mani alla testa, cadde in ginocchio e un  urlo spaventoso gli uscì di gola.
Aaron si precipitò per soccorrerlo, ma appena gli fu vicino indietreggiò immediatamente con gli occhi sgranati.
Il bambino continuava  a dibattersi a terra e a strillare come in preda ad atroci dolori; le sue membra iniziarono a gonfiarsi lacerando i vestiti e Aaron poté sentire chiaramente lo scricchiolio delle ossa di Mark che si stavano allungando, mentre il corpo nudo veniva ricoperto da un folto pelo.
Gli splendidi occhi verdi del ragazzino si trasformarono in enormi, gialli occhi ferini; la mandibola si allungò fino ad assumere una forma animalesca, mentre il labbro inferiore si arricciò mettendo in mostra una lunga fila di denti aguzzi.
A quel punto Aaron, ormai in preda al terrore più profondo, cominciò a indietreggiare, non riuscendo però a distogliere lo sguardo da quella mostruosità.
Quando giunse alla porta della cucina, la creatura ululò e poi digrignando i denti si voltò verso di lui.
Aaron allungò il braccio verso il tavolo e afferrò il matterello che vi era appoggiato sopra; appena l’essere gli si avventò contro lui ritirò il braccio colpendolo così in pieno volto.
La creatura guaì.
Aaron approfittò di quell’attimo di stordimento del mostro per fuggire. Passando per il suo studio, con un calcio spaccò la rastrelliera dove erano esposti alcuni fucili, ne prese uno e controllò che fosse carico. Non avrebbe mai voluto usarlo, ma se fosse stato necessario almeno aveva un’arma con cui difendersi.
Scostò leggermente la porta e vide che il lupo teneva bloccata la porta d’uscita, per cui cercando di non fare rumore, salì al piano superiore passando per la cucina.
Dalla balaustra spiò al piano terra. Mark-lupo stava annusando l’aria, si fermò per un istante, poi spostò lo sguardo verso il suo nascondiglio. Il ghingo della bestia si fece più largo, come a volerlo deridere e con passi lenti, ma decisi cominciò a salire le scale.
Aaron strisciò il più rapidamente possibile in camera sua, chiuse la porta e si nascose nell’ampio armadio a muro.
Rimase in ascolto, ma per un lungo tempo non udì nulla, il tempo sembrava essersi bloccato e sentiva la paura aumentare maggiormente. Armò il fucile, ma ora non era più tanto sicuro che sarebbe riuscito a sparare a quel mostro. Continuava a vedere il volto sorridente di Mark e anche se adesso aveva le sembianze di un orribile lupo, lui continuava a vederlo soltanto come un bellissimo bambino.
Un colpo secco fece scricchiolare la porta, e al secondo la porta si aprì.
La creatura fiutò l’aria, fiutò l’odore di urina che chiazzò i jeans di  Aaron; si voltò in quella direzione, e con un balzo sfondò le ante dell’armadio.
Aaron fece fuoco.

Quando la polizia giunse a casa del nuovo insegnate di Howling Rock, si trovò di fronte ad una sena agghiacciante. Nella camera da letto dell’uomo, un bambino completamente nudo, giaceva in un mare di sangue con mezza testa maciullata da un colpo di fucile.
Aaron fu trovato agonizzante nella vasca da bagno con le vene tagliate. Trasportato d’urgenza all’ospedale riuscirono a salvargli la vita.
Tre anni dopo, in una notte di luna piena, del tutto simile a quella in cui si era verificata quell’orrenda tragedia, Aaron Levi fu assassinato nelle docce della prigione in cui stava scontando la sua condanna, in attesa del giorno in cui la sentenza di condanna a morte fosse stata eseguita.

I colpevoli non furono mai cercati