martedì 23 febbraio 2016

Il destino dell'albero degli impiccati


Dopo una lunga pausa torno con un mio vecchio racconto...spero vi terrorizzi :)

Questa vicenda è accaduta molti anni fa; anche se sarebbe più corretto dire che ebbe inizio molti anni fa.
All'epoca avevo circa venticinque anni e da allora non ne ho mai scritto, ne parlato con qualcuno. Non so perché, forse per una sorta di pudore, o perché sapevo che nessuno mi avrebbe creduto, o forse perché non ci volevo credere io stesso.
Poi l’altra settimana ho letto quell'articolo sul giornale e ho capito che non erano state solo coincidenze, come mi ero voluto illudere fino a quel momento; era tutto vero e lo era sempre stato.
Ora, ho deciso di scrivere tutta la storia per lasciare una testimonianza di quanto accadde quella notte e sulle conseguenze che ebbe per tutti noi, ma soprattutto con la speranza che portandola alla luce, essa rimanga imprigionata in queste pagine, liberandomi da quel senso di colpa che grava su di me come un grosso macigno, da oltre cinquantanni.

Quell'estate avevamo deciso che avremmo passato le vacanze girando l’Italia in moto, senza tappe precise, ma fermandoci di volta in volta dove il destino ci avrebbe condotto.
Simone, Alessandro, Jonathan con la sua eterna fidanzata Martina, ed io, eravamo in viaggio già da una settima e stavamo per lasciare la Toscana, per addentrarci nella verde Umbria. Avevamo trascorso il pomeriggio in un piccolo paese medioevale passeggiando tra le mura del piccolo borgo e visitando alcuni tipici edifici; dopo aver preso un aperitivo partimmo alla ricerca di un posto dove passare la notte.
Eravamo per strada ormai da due ore, e da più di una non incrociavamo anima viva. Improvvisamente ci trovammo avvolti da un'insolita nebbia estiva, talmente fitta che non riuscivo più a distinguere i miei compagni di viaggio, nonostante mi precedessero solo di qualche metro. Allo stesso tempo i rumori dell’ambiente circostante svanirono rapidamente; niente più cinguettio degli uccelli, ne fruscio del vento tra le fronde degli alberi. L’unico rumore che percepivo era quello dei potenti motori delle nostre moto, ma anche questo mi giungeva molto ovattato, come se la densità della nebbia ne assorbisse una parte. Ricordo che perso in quella coltre bianca, provai una strana sensazione, come se fossi prigioniero di una stanza senza pareti.
Poi, così com'era comparsa, la nebbia svanì, non diradandosi lentamente, ma tutta assieme all'improvviso; tant'è che rischiai di andarmi a schiantare contro la Harley di Alessandro.
I miei amici erano tutti fermi sotto ad un grande cartello stradale e stavano osservando la cittadina che si apriva al di la di esso.

Alzai lo sguardo e lessi sul cartello il nome di quel misterioso paese: ARGO.
Erano appena le otto di sera, eppure solo poche case avevano le luci ancora accese. Pensai che, essendo quello un piccolo borgo isolato, probabilmente la gente andava a letto molto presto.
Nella piazza principale, dominata dalla torre del campanile, un unico locale era ancora aperto. Sulla massiccia porta di legno l’insegna recita così: LA FORCA: ALBERGO-BAR-RISTORANTE.
Entrando mi ritrovai in un ambiente spazioso, ma non molto ampio, alcuni tavoli erano stati disposti nella piccola sala e lungo la parete opposta a quella d’entrata c’era il grande bancone da barista.
Quando la porta si chiuse alle mie spalle, gli unici quattro clienti si voltarono ad osservarmi, distogliendo per un attimo l’attenzione dalla partita a carte nella quale erano impegnati.
“Buonasera!” esordii
“Buonasera” mi rispose l’uomo che stava dietro al bancone “posso esserle utile?”
Spiegai che ero appena arrivato in paese con quattro amici, e che cercavamo dove passare la notte.
Per qualche istante l’uomo non disse nulla limitandosi a fissarmi, come se stesse cercando di studiarmi, poi mi sorrise attraverso la folta barba che gli incorniciava il volto.
“Ma certo” disse “potete scegliere la camera che volete, sono tutte libere, purtroppo non abbiamo molti visitatori.”
Chiamai gli altri e dopo averci registrati, l’uomo ci consegnò le chiavi delle due stanze, una tripla per Simone, Alessandro e me, e una matrimoniale per Jonathan e Martina.
“Sarebbe possibile avere qualcosa da mangiare?” chiesi
“Mi spiace” rispose “purtroppo la cucina è chiusa e la dispensa è vuota, ma se volete poco più a valle c’è un pub aperto fino a tardi.”
“Ah, bene!” lo ringraziai e salii in camera per darmi una rinfrescata.
Ci ritrovammo tutti nel salone mezzora dopo e notai divertito che i quattro clienti che avevo visto entrando, erano ancora seduti allo stesso tavolo a giocare a carte.
Chiesi indicazioni al simpatico proprietario su come raggiungere il pub che ci aveva indicato.
“La strada più semplice è quella che passa attraverso i campi qui dietro, non è molto illuminata, ma arriverete dritti a destinazione.”
Un attimo prima di uscire dal locale sentimmo una voce che diceva:
“Attenti all'albero degli impiccati…”
A parlare era stato uno dei quattro giocatori di carte.
“Cosa?” chiese Jonathan
“Tenetevi alla larga dall'albero degli impiccati” ribadì l’uomo.
“Di cosa sta parlando?” insistette Jonathan “Cos'è questa storia?”
Il proprietario dell’albergo trasse un profondo respiro e poi cominciò a raccontare.
“A metà strada tra qui e il pub c’è una grossa quercia dove, nel medioevo, venivano impiccati i condannati a morte. Per molti anni ladri, truffatori e assassini sono stati appesi per il collo proprio su quell'albero. Poi un giorno, un contadino del paese fu accusato ingiustamente di aver violentato e ucciso sette bambini. Nonostante lui continuò a proclamarsi innocente fino alla fine, nessuno gli credette e così anche lui venne impiccato laggiù, ma prima che il nodo scorsoio gli spezzasse il collo, l’uomo lanciò un anatema, una specie di maledizione.
Pochi giorni dopo la sua morte, sette ragazzini furono trovati impiccati alla stessa quercia. Il paese era in preda al panico, e ricordando le ultime parole del contadino ucciso, fu chiamato un prete esorcista per far benedire l’albero.
Da allora nessuno è stato più impiccato, ne si sono ripetuti casi come quello dei sette bambini, ma chiunque si è avvicinato troppo a quell'albero è stato vittima di strane e inquietanti visioni e molta gente del paese è pronta a giurare di aver visto il fantasma del povero contadino, penzolare dal grande albero che la osservava con gli occhi fuori dalle orbite.”
“Accidenti” commentò Martina “proprio una storia da racconto del terrore.”
“Ma è solo una storia” tentò di tranquillizzarla l’albergatore “una leggenda che ormai si tramanda da generazioni, per spaventare i nostri bambini o incauti visitatori come voi” e poi scoppiò in una grossa risata.
“In ogni caso tenetevi lontano da quella quercia” proseguì l’uomo al tavolo, che non aveva mai staccato gli occhi dalle sue carte.

Nessuno di noi parlò durante il tragitto fino al pub e quando fummo nei pressi dell’albero, tutti e cinque affrettammo il passo.
Tuttavia, una volta arrivati, e dopo aver bevuto un paio di birre a testa, concludemmo che l’albergatore e i quattro clienti si erano solo voluti divertire alle nostre spalle, spaventandoci un po’.
Passammo il resto della serata mangiando, bevendo e scherzando, dimenticandoci presto del lugubre racconto.
Quando uscimmo dal locale eravamo tutti piuttosto brilli, ma anche allegri e sereni, inconsapevoli di quanto stava per accadere.
Non so perché agii in quel modo, so solo che ripensandoci ora la mi pare tutto ancora più assurdo perché non era una cosa da me.
Avvisai i miei compagni che dovevo affrettarmi a tornare in albergo, perché colpito da un inaspettato mal di stomaco, ma appena li ebbi distanziati a sufficienza mi nascosi dietro ad un albero per poi saltare fuori e spaventarli.
Mentre li aspettavo mi sedetti a terra, poggiando la schiena contro il grosso tronco e solo allora mi accorsi che mi ero nascosto proprio dietro all'albero degli impiccati.
Tentai di rialzarmi, ma non riuscii a muovere neppure un muscolo, sentivo su di me una forza invisibile che mi teneva ancorato ai piedi di quella quercia.
Fui sopraffatto dal panico, sentivo il cuore che mi martellava impazzito nel petto e sembrava sul punto di uscirmi dalla gola.
Finalmente udii i miei amici avvicinarsi e cercai di urlare per attirare la loro attenzione, ma non un fiato mi uscì dalla mia bocca.
Vidi, poi, che tutti e quattro si voltarono verso la mia direzione e nei loro occhi lessi terrore allo stato puro, Martina urlò il mio nome indicando il punto in cui ero nascosto.
Alessandro e Simone si avvicinarono di qualche passo alla vecchia quercia.
“Si è proprio lui…” bisbigliò Simone
“Oh mio Dio, allora la storia dell’albergatore è vera…” disse Alessandro “qualcuno lo ha impiccato”
Provai in tutti i modi a liberarmi dalla mia prigionia e di avvisare i miei amici che quello che vedevano penzolare dai rami dell’albero non ero io, ma fu tutto inutile,
ogni mio tentativo di spezzare le invisibili catene che mi tenevano bloccato, risultò vano.
Un’improvvisa luce abbagliante mi costrinse a chiudere gli occhi e quando riuscì a riaprirli, quello che vidi rischiò di farmi impazzire.
Tutto attorno a me era cambiato. Ora era giorno fatto e non c’erano ne alberi, ne campi, mi trovavo nella piazza di una grossa città. La via principale era molto affollata e le lunghe file di luci e decorazioni mi fecero supporre che era periodo di Natale.

Dov'ero finito e soprattutto come ci ero arrivato?

Poi, in mezzo a tutta quella gente, riconobbi il volto di Alessandro, anche se c’era qualcosa di diverso in lui, che al momento non riuscii a decifrare.
Vidi che il mio amico teneva per mano un bambino di circa sei anni e notai che questi gli assomigliava in maniera sorprendente. Mi avvicinai ad Alessandro per salutarlo e per farmi spiegare cosa fosse successo, ma nonostante arrivai sfiorargli il braccio lui sembrò non notarmi, nemmeno dopo che lo chiamai per nome. Provai allora a rivolgermi a qualcun altro per chiedere aiuto, ma anche per tutti gli altri ero soltanto un fantasma.
Stavo sognando, ero ancora seduto sotto alla grande quercia, mi ero addormentato e stavo sognando. 
Eppure io mi sentivo sveglio e quello non era uno dei soliti sogni che ognuno fa ogni notte, c’era qualcosa di terribilmente reale.
Tornai a concentrarmi su ciò che stava accadendo attorno a me quando sentii Alessandro urlare.
Il bambino che era con lui, si era lasciato inavvertitamente sfuggire la palla che  aveva sotto braccio, e corse in mezzo alla strada per recuperarla. Proprio in quell'istante un’auto che sbucò dall'incrocio, si stava dirigendo addosso al bambino. Alessandro, con un rapido scatto, riuscì a spingerlo dall'altra parte della strada, ma non poté evitare l’auto che lo travolse in pieno. Il colpo lo fece volare per una decina di metri e poi sbatté la nuca contro lo spigolo del marciapiedi. Non si rialzò più.
Il bambino si gettò sul corpo esanime dell’uomo.
“Papà …!” urlò con la voce rotta dal pianto.
Urlai anch'io, in preda alla disperazione, avevo appena visto morire uno dei miei migliori amici e non avevo potuto far nulla per evitarlo.
La testa cominciò a girarmi vorticosamente, non riuscivo più a dare un senso alle cose che stavano accadendo.
Chiusi gli occhi, esausto, sperando che quando li avessi aperti mi sarei ritrovato nel letto dell’albergo, scoprendo di aver avuto soltanto un incubo intenso.
Invece, riaprendo gli occhi, lo scenario era cambiato ancora. Mi trovavo ora nel salottino di una piccola, ma accogliente casa; il caminetto era acceso e il riverbero delle fiamme allungava le ombre degli oggetti, donando alla stanza un che di mefistofelico. Due figure scure, giacevano addormentate sul divano, unite in un intimo abbraccio, mentre dallo stereo i Cure cantavano il loro amore disperando, riempiendo l’aria di note struggenti:

"Don't look don't look
the shadows breathe
Whispering me away from you
"Don't wake at night to watch her sleep…”

Erano Jonathan e Martina, certo invecchiati, avranno avuto entrambi sui quarant’anni, ma erano indubbiamente loro.
Un piccolo scoppiettio attirò la mia attenzione e vidi un piccolo tizzone schizzare sulla tenda vicina, che immediatamente prese fuoco. Tentai inutilmente di svegliare i miei due amici, ma senza nessun risultato. Ancora una volta non potevo essere ne visto, ne sentito.

 “But every night I burn
But every night I call your name
Every night I burn
Every night I fall again…”

In breve tempo l’intera stanza fu avvolta dalle fiamme, ma ne Jonathan ne Martina se ne resero conto. Probabilmente morirono soffocati dal fumo, molto prima che il fuoco raggiungesse il divano.
Io continuavo a sentirmi impotente, un po’ come doveva essere capitato a Ebenezer Scrooge, quando ricevette le visite degli spiriti del Natale passato, presente e futuro.

La visione di quell'orrore cominciò lentamente a svanire, intrecciandosi con una nuova, mentre i Cure continuavano a cantare la loro storia

“Still every night I burn
Every night I scream your name
Every night I burn
Every night the dream's the same
Every night I burn
Waiting for my only friend
Every night I burn
Waiting for the world to end”

Ora ero seduto al tavolo di una mensa, attorno a me c’era soltanto povera gente, vestita di abiti lerci e puzzolenti, intenta a strafogarsi di cibo, che probabilmente non vedevano da diversi giorni.
Un pezzo di carne in più nel piatto di uno di loro, fu l’inizio della disputa tra due clochard e uno di essi estrasse un coltello a serramanico con fare minaccioso.
Un vecchio si mise in mezzo per cercare di sedare la rissa, ma l’uomo che con il coltello in mano non ci badò e affondò ugualmente l’arma, recidendo di netto la carotide al pover’ uomo. Ci fu un fuggi fuggi generale, solo un paio di inservienti della mensa riuscirono a bloccare il colpevole e a chiamare i soccorsi, anche se probabilmente era troppo tardi.
Mi avvicinai tremando all'uomo agonizzante, sapendo già cosa avrei visto.
A terra, in un lago di sangue con il respiro sempre più corto c’era Simone. Doveva avere almeno settantanni, lunghe rughe gli solcavano la fronte, la folta barba era sporca del cibo che non aveva nemmeno finito di mangiare. Avevo fatto fatica a riconoscerlo, tanto era cambiato, ma ora che stava morendo il suo viso era tornato quello di quando eravamo ragazzi.
Cominciai a piangere, piansi per Alessandro e suo figlio rimasto orfano; piansi per Jonathan e Martina e piansi per Simone, morto solo e dimenticato da tutti.
Tutte quelle visioni di morte, sulle quali non avevo potere mi sfinirono definitivamente e questa volta caddi addormentato in un sonno senza sogni.
Quando mi svegliai ero di nuovo sotto all'albero degli impiccati, ma dei miei amici non c’era traccia.
Riuscì a mettermi in piedi senza nessuna fatica e lentamente tornai all'albergo.
Quando entrai i miei amici erano seduti ad uno dei tavolini, con la testa tra le mani, immersi in un inquietante silenzio.
Il primo ad accorgersi della mia presenza fu Alessandro, che si lasciò sfuggire un urlo strozzato. Poi anche gli altri si voltarono verso di me e mi guardarono tanto stupiti, quanto spaventati.

Alle prime luci dell’alba eravamo ancora seduti a quel tavolino, diventato per noi, ormai così noto. Per tutta la notte mi raccontarono di quello che era accaduto da quando li avevo lasciati per fargli lo scherzo, di come avessero avuto una strana sensazione passando accanto alla vecchia quercia e che erano sicurissimi di avermi visto penzolare con una corda al collo. Mi dissero che erano tornati subito all'albergo e che mentre il proprietario stava per chiamare i soccorsi, io avevo fatto il mio ingresso, come se nulla fosse.
Io invece non raccontai nulla della mia esperienza, non volevo turbarli più di quanto non lo fossero già.
Inoltre mi stavo convincendo che probabilmente mi ero addormentato qualche minuto e avevo sognato tutto.
Il giorno seguente partimmo e decidemmo di tornare subito a casa. Quella fu l’ultima vacanza che facemmo tutti assieme, in breve tempo ognuno prese la sua strada e ci perdemmo di vista.

Io continuai a credere che tutto quello che era accaduto fosse stato solo un brutto incubo, continuai a crederlo anche quando venni a sapere che Alessandro era morto investito da un’auto per salvare il figlio. Volli illudermi anche quando anche quando al telegiornale parlarono di un incendio in cui morì una giovane coppia di sposi. Poi la settimana scorsa, leggendo il giornale, appresi di un clochard accoltellato a morte in un ricovero per senza tetto, mentre cercava di sedare una rissa.
Ora non potevo più mentire a me stesso, per troppo tempo lo avevo fatto. I fatti di quella notte erano stati reali, in qualche modo ero riuscito a vedere il futuro e non potei fare a meno di sentirmi in colpa per aver taciuto.
Forse se avessi raccontato tutto avrei potuto salvare i miei amici, o forse era destino che morissero a quel modo e qualunque cosa avessi fatto non avrei potuto cambiarlo.
Ora sono qui, seduto a questa scrivania, che sto finendo di scrivere questa storia e mi chiedo quale sia il destino mi aspetta. Ma la risposta la so già.
Il mio destino è legato ad una corda ed ad un albero in uno sperduto paese del centro Italia. 


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