sabato 4 giugno 2016

Le biciclette di Pechino (2001)



Guo un giovane e ingenuo ragazzo di campagna, trova lavoro a Pechino come pony express.  Per spostarsi nel caotico traffico della capitale cinese, la ditta gli affitta una bicicletta, che il ragazzo potrà riscattare appena ha guadagnato il denaro sufficiente. Tuttavia, appena Guo riesce a guadagnare i soldi necessari, la bicicletta gli viene rubata. Per evitare il rischio di essere licenziato, il giovane comincia a cercare ovunque il veicolo. Jian invece è uno studente, figlio di una famiglia povera. Il padre di questi ha più volte promesso al ragazzo di comprargli una bicicletta, ma per un motivo od un altro, non è mai riuscito a mantenere la promessa. Dopo l’ennesima delusione, Jian ruba del denaro in casa e compra la bicicletta di Guo, finita al mercato dell’usato. 
Nel 1948, De Sica usava il pretesto della bicicletta, per raccontarci l’Italia del dopoguerra, ancora povera e con le ossa rotte, che faticava a rialzarsi e in cui un oggetto, oggi comune, allora rappresentava un’opportunità di una vita sociale dignitosa. Allo stesso modo Wang Xiaoshuai, si rifà al capolavoro del cinema realista italiano, per raccontarci una Cina diversa, da quella del boom economico che il Paese asiatico sta vivendo. Una Cina fatta di povertà e differenze sociali, in cui una bicicletta per qualcuno rappresenta un’occasione unica di lavoro e riscatto sociale, per qualcun altro è uno status symbol , un mezzo per essere accettato dagli amici e per far colpo su una ragazza. 



A noi potrà far sorridere la cocciutaggine di Guo, nella sua ricerca del mezzo rubato e poi nella sua caparbietà nel rimanervi letteralmente avvinghiato, quando tenteranno di portarglielo via di nuovo. E allo stesso modo potremmo rimanere sorpresi della tenacia con cui Jian reclama la proprietà della bicicletta, perché anche se con denaro rubato alla famiglia, lui il mezzo l’ha comprato legalmente. Ma in Cina la bicicletta è ancora un mezzo di lusso per molti, più o meno come lo è un’auto da noi, perciò l’atteggiamento dei due giovani, non è poi così sorprendente. Certo inizialmente viene naturale parteggiare per il povero Guo, tanto ingenuo quanto testardo, perché per lui quella bicicletta rappresenta forse l’unica possibilità per sopravvivere in città, e non ritornare a fare la fame in campagna. Ma anche Jian ha le sue motivazioni; il padre ha sempre dovuto sacrificare i desideri del figlio e quando ancora una volta questi si vede messo in secondo piano, tanto più a  favore della sorellastra, reclama ciò che gli è stato a lungo promesso. E se anche con modalità sbagliata,



Jian compra legalmente la bicicletta, perciò si capisce perché non è intenzionato a cederla facilmente.
Wang Xiaoshuai, a differenza di altri registi cinesi, rifiuta il buonismo e lo sguardo da cartolina, addentrandosi nei vicoli poveri di Pechino, da cui al massimo si possono spiare i palazzoni, nati con l’esplosione del consumismo, in cui vive la gente benestante. Ma da distante lo sguardo può ingannare, e quella che sembra una donna  ricca ed annoiata, appena la avviciniamo, scopriamo essere solo una semplice cameriera che si prova di nascosto i vestiti della padrona.
Il finale del film, che ricalca in parte quello di De Sica, è amaro e per nulla buonista, lasciando poco spazio alla speranza, in cui i protagonisti escono entrambi sconfitti.
La critica che Xiaoshuai, ha mosso al suo Paese, non sono piaciute al governo, che infatti non ha finanziato in alcun modo il film, ma fortunatamente all’estero si sono accorti dell’alto valore sociale della pellicola, attribuendogli diversi premi internazionali. Bravissimi gli interpreti.


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